Papa Francesco ha avuto l’occasione di poter incontrare direttamente i componenti della Pontificia Commissione per la protezione dei minori, una nuova realtà voluta dallo stesso pontefice per sistematizzare le scelte “forti” dei suoi predecessori in tema di condanna della pedofilia e di pubblica denuncia degli abusi sui bambini da parte del clero. 



Il percorso della commissione non è stato fin qui molto semplice: diversi gli abbandoni e diverse le polemiche per un presunto ritardo, e una presunta “poca collaborazione”, da parte di diversi organismi della Chiesa stessa. Francesco non ha voluto aggirare il problema e ha parlato, senza mezzi termini, di un peccato di cui la stessa Chiesa non ha ancora preso piena coscienza in tutta la sua gravità, addebitando le resistenze interne a chi riduce la pedofilia ad una questione morale e non ne vede, al contrario, la dimensione patologica. 



E’ questo un passo nuovo e spiazzante del pontefice nei confronti delle parole e delle prassi usate in tutti questi anni: non si tratta più di riconoscere il fenomeno, e nemmeno di collaborare con le autorità civili per denunciarlo e punirlo. Si tratta, invece, di capirne la vera natura: la pedofilia, afferma Francesco, non è un comportamento di cui ci si pente e poi “tutto va a posto”, la pedofilia è un problema inerente la stabilità psichica della persona, la sua maturità affettiva e spirituale, per cui “basta un solo comportamento di questo tipo” per essere esclusi dal sacerdozio e ridotti allo stato laicale. 



Non sono parole facili quelle che provengono dal successore di Pietro. E’ come se il Papa chiamasse tutti ad un salto di coscienza decisivo in cui non sono più ammesse zone d’ombra, ma in cui il “riconoscere la colpa” fa parte di un processo di crescita il cui esito non può essere gestito secondo le normali leggi canoniche, bensì merita un’eccezionalità di trattamento che faccia comprendere al tessuto sociale e alla persona il grado di colpa di cui un prete pedofilo si carica. Per questo il Papa ha escluso per un sacerdote condannato per pedofilia, e poi pentito, la possibilità di provvedimenti di grazia: la grazia, infatti, sana il peccato, ma non può guarire l’uomo da una malattia psichica perché “gratia supponit natura“. 

C’è ancora troppo pudore, nella Chiesa, ad affrontare processi di purificazione, a riguadagnare il passato in modo critico, stigmatizzandolo e giudicandolo secondo il livello di coscienza che il tempo presente ha permesso che si sviluppasse dentro il tessuto ecclesiale. La morale è oggettiva: il bene è bene e il male è male. Eppure ci sono alcuni momenti della storia in cui certi mali vanno con forza combattuti e affrontati perché “spie” di disagi più profondi e di dissesti antropologici strutturali: la pedofilia racconta di un insano percorso affettivo che ammanta di problema morale ciò che, al contrario, è una questione medica e psichiatrica.

Il processo di coscientizzazione è ancora molto lungo e le comunità non sono ancora pronte a prendere ferma distanza da quello che non è un incidente di percorso, ma un reale impedimento a svolgere il ministero sacerdotale. Il cammino e le parole del Papa sono lì ad indicarci la strada: chi vive nella fede non deve aver paura di chiamare le cose col proprio nome. E questo vale, prima ancora che per i comportamenti del “mondo”, per le perversioni che si possono sempre annidare all’ombra di quella che Ignazio amava chiamare la nostra “Santa Madre Chiesa Gerarchica”, un corpo vivo che non può stare davvero nel presente senza aver fatto prima i conti con il proprio passato, un passato fatto di uomini e di peccati.

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