La legge per mano dei supremi giudici sancisce che i figli adottati sono figliastri, e se li ammazzi fai una cosa brutta, ma hai lo sconto. Uno sarebbe portato a non crederci, a pensare che poi a Berlino esista un giudice. Invece Berlino non esiste per i figliastri. C’è Roma, purtroppo.
Qui la Corte di Cassazione ha applicato la legge penale con esattezza, pare. Ha sentenziato che se un padre uccide un figlio adottivo non si adottano (gioco di parole amaro e voluto) le aggravanti previste invece se quel figlio discende dal suo sangue. Dunque niente ergastolo. Tutto è assai meno grave. Più che dimezzabile sarà la pena in Appello: l’assassino può cavarsela con 16 anni. L’equiparazione tra figlio di sangue e figlio adottivo vale per il codice civile, quello penale è in ritardo. Tutto questo fa semplicemente schifo. La questione andava trasmessa dai supremi giudici per un esame di liceità alla Corte costituzionale (articolo 3 della Costituzione: uguaglianza tra figli, non esistono i mezzi figli). Invece non so se per provocare il legislatore o per altre ragioni, temo che questa sentenza sia in sé un crimine se non altro morale. Applicando sordamente quella legge, si va contro la norma scritta che proibisce la discriminazione tra i cittadini. E ce n’è una non scritta, senza bisogno di citare Antigone, lo capiscono tutti dove sta la ferita della giustizia.
Non si sentiva il bisogno di questa offesa, ma ha il triste merito di farci scoprire che non c’è solo l’omofobia o l’antisemitismo. Si rivela l’esistenza di questo razzismo contro i bambini adottati, appoggiandosi al codice. Non ci si può fare schermo delle pagine della legge sé essa urta contro la coscienza: c’è qualcuno che la può ragionevolmente difendere?
La vittima merita certo di essere ricordata. Quel ragazzo è un martire, sul serio. Era il figlio più figlio che una madre possa desiderare. Il caso di questo omicidio spaventoso si è verificato a Remanzacco in provincia di Udine nel 2013. Il padre, Andrei Talvis, 57 anni, un moldavo, era tornato a casa ubriaco e violento come al solito, alle 4 del mattino. Non doveva essergli concesso di circolare impunito. La moglie, Elisaveta, anche lei della medesima nazionalità, aveva invano denunciato più volte questo delinquente: la torturava. Anche quella notte il marito era stato fermato dalla polizia municipale, perché in preda a quella ebbrezza cattiva che prelude al sangue versato dagli inermi. I vigili hanno preso nota e — pur essendo note le ripetute denunce e il terrore vissuto in quella casa — non l’hanno arrestato.
A casa il figlio si è frapposto tra il coltello di suo padre e il petto di sua madre. Allora l’uomo ha pugnalato il ragazzo. Si chiamava Ion. Era un figlio non un figliastro.