Sono trascorsi quasi tre mesi dal drammatico 14 giugno scorso, quando divampò un terribile incendio alla Grenfell Tower provocando la morte di 80 persone. I sopravvissuti all’orrore però, non dimenticano. Nei loro occhi, le fiamme, le urla e l’odore acre del fumo e dell’inferno non può che restare intatto, indipendentemente dal tempo trascorso. E’ diventato difficile, per non dire impossibile, per ciascuno dei superstiti, riuscire ad intravedere un futuro nelle proprie vite. E così, piuttosto che voltare faticosamente pagina e cercare con tutte le proprie forze di dare un senso al proprio destino, sentendosi dei miracolati, in tanti nelle ultime settimane hanno tentato di togliersi la vita. Un gesto estremo ma che, come rivela Corriere.it, trova conferma nelle parole di Yvette Greenway, fondatrice dell’associazione Silence of Suicide. A sua detta, almeno 20 delle persone presenti quella notte nella Grenfell Tower, l’imponente torre di 24 piani di Londra, hanno tentato il suicidio. Sebbene la Bbc non abbia confermato questo numero shock, è chiaro che il dato arrivi direttamente dagli operatori sociali che si trovano giornalmente a stretto contatto con i sopravvissuti al rogo.



TRAVOLTI DAL SENSO DI COLPA

Ma cos’è che tormenta, a distanza di quasi tre mesi, la mente dei superstiti? A tentare di dare una spiegazione all’incubo profondo che continua ad accompagnare le vite di coloro che sono riusciti a sopravvivere all’inferno delle fiamme è stata la stessa Greenway. A sua detta, queste persone non riescono a cancellare l’immagine dell’edificio in fiamme, ma soprattutto non ce la fanno a scrollarsi di dosso “il senso di colpa del sopravvissuto”. La fondatrice dell’associazione è intervenuta alla Bbc spiegando: “Si sentono isolati, in molti si sono dati all’alcol e alla droga”. Una condizione che ha chiaramente sollevato l’allarme ma che potrebbe addirittura peggiorare con il passare del tempo. “Ci sono molti altri casi di disturbo post-traumatico da stress, depressione, ansia e auto-danneggiamento quando le persone raggiungono le diverse fasi di trauma”, ha spiegato Greenway. Non tutti, infatti, sono colpiti nel medesimo momento dalle conseguenze del trauma subito. “Abbiamo bisogno di una garanzia di salute mentale a lungo termine almeno per i prossimi tre decenni, forse più a lungo”, ha aggiunto l’esperta, ribadendo la situazione alquanto delicata. La stessa ha poi lanciato delle sonore critiche a chi si sarebbe dovuto occupare di un adeguato sostegno psicologico ai sopravvissuti. In tanti operatori sociali, secondo le testimonianze raccolte, non avrebbero avuto contatti diretti con gli interessati ma si sarebbero limitati a lasciare dei volantini sotto la porta delle proprie abitazioni.

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