In Italia la storia della malaria e la sua sconfitta, che credevamo fosse definitiva, almeno fino a pochi giorni fa, è un capolavoro a cui hanno collaborato per decenni, pur senza esserne pienamente consapevoli, ricercatori di ambiti molto diversi. Medici e ingegneri, zoologi ed agronomi, funzionari pubblici e semplici contadini. Forse soprattutto questi ultimi, capaci di osservare l’ambiente in cui si sviluppava la malaria e in cui molti di loro vivevano e si ammalavano, con tanta attenzione da scoprire com’era possibile curare la malaria trecento anni prima che si sapesse cosa la causava e in che modo si propagasse. Furono loro a scoprire in modo del tutto empirico l’efficacia del chinino, farmaco che si usa ancora oggi per la cura e per la profilassi.
Sono proprio queste conoscenze, approfondite nel tempo con un metodo rigorosamente scientifico, a rendere misterioso il caso della piccola Sofia Zago di quattro anni, uccisa da una malattia tropicale ritenuta lontana mille miglia. La malaria si trasmette solo attraverso un certo tipo di zanzara: l’Anopheles, che pungendo il soggetto inietta nel suo sangue un certo tipo di parassita, il cosiddetto plasmodium falciparum, che si moltiplica velocemente nel sangue e con tempi e ritmi ben noti, infetta l’organismo fino a provocare la febbre malarica.
Il quesito alla base della malattia e della morte di Sofia quindi riguarda due punti chiave: nell’ospedale di Trento c’era questo tipo di zanzare che avrebbero potuto trasferire il micidiale parassita dalle due bambine del Burkina Faso a Sofia? E, cosa ancor più difficile da immaginare, avrebbe potuto esserci una sorta di contaminazione tra il sangue delle due bambine africane e quello della piccola italiana? Come dire: c’è qualche protocollo che non ha funzionato come avrebbe dovuto? Di questo si occuperà la magistratura, dal momento che il ministro Lorenzin, con la sua consueta tempestività, ha già chiesto che venga aperta una inchiesta.
Ma quello che a me interessa sottolineare è quanto sia pretestuosa l’aggressione mediatica in senso anti-immigratorio che si sta sviluppando presso una parte dell’opinione pubblica. La malaria nel mondo è ancora la seconda causa di morte tra le malattie infettive. Chiunque va in vacanza in uno dei paesi del continente africano corre il rischio di contrarla e per questo è obbligatoria la profilassi con il chinino. La morte di Sofia, rispetto alla guarigione delle due bambine africane, mette in evidenza come lei, che era stata ricoverata poche settimane prima per diabete, e successivamente aveva contratto una fastidiosa faringite, fosse evidentemente in condizioni di salute più fragili e quindi sia stata vittima di una malaria che l’ha colpita in maniera fulminante. Sono moltissimi i bambini malnutriti, in condizioni igieniche precarie, che in Africa muoiono di malaria; il caso drammatico di Sofia ci tocca tutti personalmente perché si è verificato in casa nostra, in un ottimo ospedale, in una delle province più avanzate del paese, e questo rende incredibile, ma non impossibile, che anche in Italia si possa morire di malattie che credevamo definitivamente debellate. Un vasto piano di bonifiche in Africa rientra tra gli obiettivi dell’Oms, anche se non è stato ancora possibile realizzarlo in modo soddisfacente.
Da anni la ricerca cerca di mettere a punto un vaccino contro la malaria, senza riuscirci ancora in modo soddisfacente. E questo il caso di Sofia dovrebbero farci riflettere anche sull’efficacia dei vaccini e sulla vaccinazione di massa, che potrebbe salvare milioni di bambini nel mondo. Il primo vaccino contro la malaria sarà utilizzato a partire dal prossimo anno, il 2018, in Ghana, Kenya e Malawi. L’iniziativa è la prima su larga scala e ha richiesto più di 25 anni di sviluppo.
Ecco, ci piacerebbe che invece di scandalizzarsi per il fatto che in Italia si muoia ancora di malaria, cercando i colpevoli tra gli immigrati, si cercasse invece di potenziare la ricerca nel campo del vaccino per la malaria; si attivasse una politica positiva di sviluppo nelle zone a più alto rischio e si ricordasse come in Italia poco meno di cento anni fa la malaria creava vere e proprie forme di epidemia; gli italiani, soprattutto i contadini, emigravano all’estero per sottrarsi alla malattia e poter continuare a vivere e a lavorare. Ma lo stato allora seppe intervenire in modo forte e coraggioso con opere di bonifica ambientale, con la somministrazione gratuita del famoso chinino di stato e con un’intensa campagna di educazione alla salute. Questo fu il modello italiano che vogliamo ricordare e che vogliamo esportare; un modello da cui nacque la medicina sociale, merito indiscusso del nostro Paese.