BOGOTA’ — Arrivano prima i cavalli, poi l’utilitaria nella Plaza de Armas. Il cuore di Bogotá è in fiamme. I pochi chilometri quadrati in cui si concentrano i simboli istituzionali della grande Colombia sono animati da migliaia di persone. I giardini che abbracciano l’osservatorio astronomico frutto della sapienza architettonica di un frate cappuccino, Fray Domingo Petrez, sono popolati da picchetti d’onore, orchestre e bande. Persino il grande spazio davanti alla Casa de Narino, il palazzo presidenziale dedicato al militante più noto della lotta per l’indipendenza del paese, si è trasformato in uno stadio, con tanto di spalti in cui prendono posto diplomatici e politici, imprenditori ed intellettuali. 



Un interminabile tappeto rosso sottolinea il percorso stabilito per l’arrivo di Francesco. Ed eccolo che scende dalla macchinetta introdotta da militari a cavallo, l’incontro con il presidente Juan Manuel Santos e la consorte, che si deve sentire qualcosa di molto simile ad una regina cattolica visto che osa il bianco in presenza del pontefice. L’audacia cromatica di Maria Clemencia Rodriguez non sarà l’unico strappo al protocollo. Infatti da subito si percepisce che quello che a tutti gli effetti doveva essere il primo, formale, evento pubblico per Francesco, assume contorni diversi. Più popolari. Ci pensa l’orchestra con l’esecuzione infinita dell’inno colombiano, ma anche quella coralità voluta ed esibita da Santos, la partecipazione allargata ad un incontro istituzionale destinato ad inaugurare una giornata intensissima per il pontefice. Ad assestare l’ultimo definitivo colpo al cerimoniale arrivano poi i bambini, disabili e non, che si trasformano in incursori sul quel tappeto rosso, diventato nel frattempo luogo di abbracci. A scatenarli, poco prima, un uomo che ha interrotto la marcia trionfale di Santos e consorte accanto a Francesco, gettandosi ai piedi del pontefice. E’ diventato l’icona di una intera nazione disposta a riconoscere nel pellegrino che arriva da oltreoceano il più grande sostenitore della pace. Un paese ai piedi del Papa, grato e bisognoso, fragile eppure temprato. 



E’ proprio Santos che ha sintetizzato lo stato d’animo di ogni abitante della terra baciata dalla bellezza e violentata dall’odio. “Grazie per accompagnarci in un momento unico della nostra storia” ha esordito nel suo discorso appassionato, “grazie per esserci accanto nel primo passo verso la riconciliazione”. Perché questa è la sfida che attende la Colombia, superare la memoria dolorosa di un conflitto infame, trasformare le armi in parole. Perché non serve silenziare i fucili se non si disarmano i cuori. E Santos, che ha incassato anche il no referendario al processo di pace e i sospetti di gran parte dell’opposizione, e che ancora cerca l’intesa con gli irriducibili della guerriglia e che soprattutto sa bene che ogni famiglia nel paese conserva ferite e lacerazioni, ammette il bisogno di trovare la forza e il coraggio per amare e perdonare. Ed è quello che chiede al Papa, l’aiuto per purificare i cuori. Perché la vera pace non sia fa sui tavoli dei negoziati, ma nei bar e nei negozi, in fila dal panettiere o alla partita di calcio dei figli. Quando bisogna sfiorare chi un tempo era nemico, parlare con chi ci ha fatto del male, e magari stringere la mano all’assassino dei propri figli. 



E Francesco, senza sconti, racconta di una pace che è lavoro sempre aperto, compito che non dà tregua ed esige l’impegno di tutti. Della fatica nello scansare la tentazione della vendetta, del dolore nel purgare le ferite, della costruzione di un paese in cui nessuno sia escluso e l’ingiustizia non abbia spazio. Alla fine Bergoglio sceglie l’amato Marquez per dare il là ad una giornata che poi riserverà altri momenti epici, dall’incontro con i giovani in piazza Bolivar alla messa celebrata di fronte ad un milione e 100mila persone nel parco della capitale. Cent’anni di solitudine sono abbastanza, dice, l’odio deve lasciare spazio alla vita. Con la consapevolezza che non si è soli, perché il Papa cammina con la Colombia.