18 giugno del 1982, Londra. Un cadavere pende dal ponte dei Frati Neri sul Tamigi. Questa potrebbe essere una brutta storia come tante altre; un uomo che preso dalle difficoltà della vita, in una metropoli che dà tante opportunità ma che non perdona se si fallisce, decide di farla finita. Forse aveva acquistato qualche giorno prima quella corda, adesso se la stringe per bene sul collo, si fa coraggio, e salta da quel ponte, nel vuoto: è la fine di un’esistenza. Però c’è subito qualcosa che non convince gli inquirenti di Scotland Yard. Bisogna indagare a fondo su questo presunto suicidio. Sì, perché quell’uomo, ben vestito, si chiama Roberto Calvi, ed è conosciuto da molti e dai potenti come “il banchiere di Dio”. 



Eppure ci sono tante altre storie che dovrebbero essere raccontante, storie più normali, di sofferenza e di disagio personale dei nostri connazionali che, emigrati a Londra, fanno i conti con una vita diversa da come se la aspettavano. A segnalare il disagio è il direttore generale della Fondazione Migrantes della Cei, don Gianni De Robertis, riferendoci che a Londra in media ogni mese si registra il suicidio di un italiano. Ci sono connazionali forse “meno importanti” dei potenti banchieri, però pur sempre “figli di Dio”, che vivono nella Great London ma, come quelli che abitano nelle anonime e tristi periferie, arrancano disperati nella quotidianità. Quando sono in Italia parlano di una Londra affascinante, piena di avventure, un po’ come i sogni hollywoodiani della Grande Mela, però con il vantaggio di poter trovare un biglietto low cost e tornare quando vogliono dalla famiglia di origine. Ma i loro blog raccontano una Londra diversa. Le distanze tra dove si vive e il posto di lavoro sono immense, si può arrivare a viaggiare nella costosissima metropolitana per più di due ore. Se si vuol vivere nelle zone centrali bisogna prendere in affitto una lurida stanzetta a prezzi esorbitanti. Di ristoranti buoni ce ne sono come a New York, ma un salario medio ti proibisce di uscire ogni fine settimana.



E allora cosa si fa? Si trova conforto e comprensione nel relazionarsi con altri emigrati italiani, oppure attraverso i “social” si chatta con l’amico del sud e del nord che magari vive in Italia, e cosi ci si consola nella città di nessuno, neanche degli inglesi. E’ noto agli esperti che si interessano delle cause sottostanti le malattie mentali, che tra i fattori di rischio ci sono quelli che ho descritto: lo status di immigrato, vivere in una grande metropoli, risiedere in zone degradate, essere pendolare per lunghi periodi. E allora non aspettiamo di raccontare un nuovo suicidio nella Great London, ma cerchiamo di prevenirlo. Quanto triste sarebbe dover trovare domani un altro corpo penzolante da uno dei tanti ponti della capitale!

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