E’ ripresa oggi la requisitoria del processo sulla cosiddetta Trattativa Stato-mafia, esattamente dalle parole dette dal boss Totò Riina agli agenti di polizia penitenziaria del carcere di Opera e dalle intercettazioni del 2013 con protagonista anche il compagno di cella Lorusso. Il pubblico ministero Nino Di Matteo, come riferisce LiveSicilia.it, ha ricordato in aula a Palermo quando il capomafia rivolgendosi ad una guardia penitenziaria asserì: “è stato lo Stato a venirmi a cercare”. Il riferimento, secondo il pm è proprio alla trattativa avviata inizialmente, secondo l’accusa, dai carabinieri del Ros con il boss mafioso. Poi Di Matteo ha chiarito, difendendo la genuinità delle esternazioni del padrino: “Riina non immaginava di essere intercettato, altrimenti non avrebbe discusso di argomenti relativi ai suoi familiari e del suo patrimonio, parlando anche di beni intestati a prestanomi che non sapevamo essere suoi, né avrebbe espressamente minacciato di morte alcuni pm di questo processo”, ribadendo poi come allo stesso boss il dibattimento trattativa stesse molto a cuore. Durante la requisitoria è stato riservato ampio spazio anche alle conversazioni in cui Riina covava dubbi su Provenzano, sospettando di essere tradito da lui, sebbene facesse fatica a confidarlo anche a se stesso. Non da meno, le rivelazioni del boss sugli attentati a magistrati Rocco Chinnici e Paolo Borsellino e che testimonierebbero l’assenza di timori da parte di Riina di essere intercettato. (Aggiornamento di Emanuela Longo)
TRATTATIVA STATO-MAFIA, REQUISITORIA DEL PM NINO DI MATTEO
Oggi era il turno di Nino Di Matteo, il pubblico ministero, all’ennesima requisitoria del processo sulla Trattativa Stato-Mafia che vorrebbe dimostrare l’esistenza di un canale di collegamento profondo tra la politica e Cosa Nostra in merito al periodo delle Stragi ad inizio Anni Novanta (e non solo). Il pm siciliano ha parlato di moltissimi punti all’ordine del giorno delle indagini sulle varie piste presenti in questo “maxi” processo con la Mafia e lo Stato sullo stesso banco degli “imputati”: in particolare, sono le intercettazioni del Capo dei Capi Totò Riina ad essere lette in aula dallo stesso pm Di Matteo. «In qualche modo” Silvio Berlusconi “mi cercava, mi ha mandato a questo e mi cercava. Gli abbiamo fatto cadere quattro o cinque volte le antenne e non lo abbiamo fatto più trasmettere. Gli abbiamo fatto questo ammonimento e non l’ho cercato più», queste sarebbero le parole (riportate al processo) dette da Riina al detenuto Alberto Lorusso qualche mese prima della morte avvenuta lo scorso novembre. «Nei dialoghi intercettati in carcere Riina più volte parla dei canali tramite i quali avrebbe potuto contattare Dell’Utri», spiega il magistrato facendo riferimento all’ex senatore e braccio destro di Berlusconi, oggi imputato ancora nel processo per minaccia a corpo politico dello Stato. Stando a quanto affermato in aula ancora da Di Matteo, riporta l’Adnkronos, il boss mafioso Riina «dimostra di essere consapevole dei rapporti che i fratelli Graviano avevano per i loro canali con l’imprenditore e poi politico Berlusconi. Alterna momenti di sincera confidenza con dei momenti in cui invece assume ufficialmente la parte di chi non sa nulla».
IL “RUOLO” DEI CIANCIMINO
Secondo il magistrato anti-mafia, Totò Riina non sapeva di essere intercettato altrimenti non avrebbe spiegato in più passaggi i vari dettagli dei tantissimi omicidi da lui commissionati nella sua lunga latitanza a capo di Cosa Nostra. Un altro punto affrontato poi da Di Matteo in aula è quello riferito alla famiglia Ciancimino (il padre Vito, ex sindaco di Palermo e il figlio Massimo, un tempo anche pentito e collaboratore): «Per quanto riguarda l’accusa di calunnia nei confronti di Gianni De Gennaro – è la tesi della procura – Massimo Ciancimino è colpevole e secondo noi non merita le attenuanti generiche. Perchè non è plausibile che, rispetto alla consegna di un documento così importante, non abbia la contezza delle precisa identità di chi glielo ha fornito dandogli anche le indicazioni su cosa riferire ai magistrati». Di Matteo accusa dunque Ciancimino di calunnia assai grave e infamante contro l’ex capo della Polizia italiana. In particolare, De Gennaro aveva il suo nome cerchiato di rosso ma quella “correzione” l’avrebbe aggiunta Vito Ciancimino, sempre secondo Di Matteo (come riporta Salvo Palazzolo su Repubblica) dimostrando “falso” quel documento. «Massimo Ciancimino ha fornito piena confessione del fatto in questo processo – conclude Di Matteo – ma così come è colpevole di calunnia e non merita le attenuanti generiche, allo stesso modo è per noi credibile su altri fronti della trattativa e ha il merito di avere sollecitato i ricordi e risvegliato la memoria di tanti che fino ad allora avevano taciuto».