Aveva quattordici anni, Ammy Everett. La chiamavano Dolly da quando, a otto anni, era stata il volto di una campagna pubblicitaria di cappelli tipici australiani. Si è suicidata, a quattordici anni, Ammy “Dolly” Everett. Suo padre ne ha dato notizia con un post su Facebook pieno di compostezza e dignità. Con discrezione, scrive semplicemente che la figlia non ha retto alle cattiverie di cyberbulli. Non si perde in particolari, va al sodo: sfida i carnefici della figlia ad andare al funerale per rendersi conto del male fatto, chiede a tutti di impegnarsi in una lotta al bullismo globale.



Nel mio piccolo, vorrei rispondere all’appello con una piccola storia. Poco prima di Natale, un mio alunno — chiamiamolo Mario — ha proposto alla classe di vedere insieme questo video. Per chi non ha voglia di guardarlo, racconta come è facile finire nel tritacarne delle beffe, atroci per chi le riceve, mentre chi le infligge a volte non si rende neppure conto del danno. Perché ce l’hai mostrato?, chiedo. Perché ci ritrovo me da bambino, oggetto di scherni e violenze, risponde. Poco prima due suoi compagni di classe mi avevano candidamente raccontato di aver preso in giro una ragazza cicciona. Ho provato a mettere insieme le cose: non vi pare che quel che avete fatto a lei sia uguale a quel che ha subìto Mario da piccolo?



L’altro giorno i due mi hanno portato una lametta. Era di Mario. Perché Mario ha mostrato loro i tagli che si fa sulle braccia. Mi hanno chiesto che cosa possono fare. Potete solo far vedere a Mario che gli siete amici, ho risposto. Oggi ho fatto di nuovo lezione nella loro classe. Posso confessare che ero commosso da come questi due — stiamo parlando di due quindicenni come mille della periferia milanese — stavano attorno a Mario, parlavano delle loro vite, affettuosamente lo rimproveravano?

Ho divagato, lo so. Ma sono convinto che la radice del bullismo — che, peraltro, avremo evangelicamente sempre fra noi, la zizzania crescerà fino alla fine del mondo — sia l’abbandono in cui i nostri ragazzi crescono, la mancanza di qualcuno che voglia loro bene e da cui possano imparare a volersene fra loro. Tutto il resto, mi pare, è chiacchiera.