NEW YORK — Perché leggere The Life of Luigi Giussani, la biografia firmata da Alberto Savorana e appena edita in inglese? Don Julián Carrón, speaker fisso della domenica al New York Encounter, ha quest’anno preferito rilanciare domande agli invitati a un folto incontro.
Ha voluto introdurre il volume, Carrón, sottolineando e lodando il metodo seguito dal biografo, presente sul palco: lasciar parlare il più possibile nelle pagine il fondatore di Cl. Che a sua volta, in vita sua ha parlato molto di se stesso, ma non certo per protagonismo, per volontà di comunicare o affermare il suo “self”.
“Don Giussani ha fondato il suo metodo di educatore cristiano sull’esperienza dell’incontro con Cristo — ha ricordato Carrón — e per lui era naturale raccontare di continuo la pienezza di questa svolta decisiva per la sua vita, che desiderava condividere con coloro che lui incontrava”. Voleva che tutti fossero in ogni istante “svegli perché stupiti, sorpresi, attratti da qualcosa di meraviglioso”. Un passo brevissimo e siamo al rischio-ipnosi sempre più evidente nei social media, soprattutto fra i giovani. Un ulteriore passo e Carrón racconta di una famiglia incontrata pochi giorni fa a Londra: marito e moglie con due lavori di successo, un terzo figlio in arrivo. Eppure, si tratta di un marito-padre rigorosamente residente nel “primo mondo anglosassone” pieno di soddisfazioni e di opportunità, e attorno a questa vita si è fatto largo un pericoloso senso di vuoto: di appagamento negativo annoiato. Una perdita di attenzione per il mistero umano e di gusto per la sorpresa niente affatto sorprendenti in Gran Bretagna, in Europa e negli Usa nel ventunesimo secolo. Ecco perché — secondo Carrón — l’edizione inglese della biografia di Giussani (curata dalla McGill-Queen’s University Press) ha qualcosa, molto da dire Oltre Atlantico: dove il New York Encounter 2018 ha invitato quattro testimoni d’eccezione per la vita d’eccezione descritta da Savorana.
Don Pigi Bernareggi ha raccontato forse per la centesima volta la “prima volta” del liceo Manzoni a metà anni 50 e poi tutte le altre volte: le origini del movimento, il viaggio in Brasile del 1964, così importante per lui e anche per il “Gius”. Fino a una lettera del 1999, letta dall’autografo. “Ero molto malato e don Giussani mi scrisse ringraziandomi di tre cose: dell’aver mantenuto la memoria di Cristo nella mia vita; di aver saputo credere nella croce come condizione per la resurrezione; di essere rimasto fedele al poco di me stesso per esprimere la grandezza del cuore dell’uomo nella valle di lacrime”.
Pier Alberto Bertazzi non ha potuto non spiegare, mezzo secolo dopo a New York, com’è nato a Milano il nome oggi globale di “Comunione e liberazione”: in modo sorprendente, wondering. A partire da una scelta personale impegnativa: rimanere vicino a don Giussani all’interno di un’esperienza di fede vissuta in università quando molti altri l’abbandonavano a cavallo del Sessantotto. L’inizio di un percorso senza copione scritto, dagli sviluppi inattesi: a cominciare dalla credibilità di presenza che gli altri movimenti presenti negli atenei milanesi diedero da subito a quello che era il semplice titolo di un volantino. “Don Giussani mi ha insegnato questo: che l’impossibile può diventare esperienza umana”.
“Don Gius mi ha chiesto: sei pronta a donare la tua vita a Cristo? Io lì per lì gli ho detto di no. Non pensavo di avere nulla da poter offrire a Cristo, poi…”. Rose Busingye è venuta al NYE 2018 dal suo International Meeting Point di Kampala per raccontare un incontro e un’amicizia in cui tutto è stato ai limiti dell’incredibile: come quando, approdata in un albergo fra le Dolomiti, un sacerdote le dice uscendo dall’ascensore: “Ciao Rose”. Lei era venuta dall’Uganda apposta per cercarlo, dopo aver letto in fotocopia un suo libro che le aveva riempito il cuore. “Non sapevo che faccia avesse, lui invece sapeva chi ero io”. E quel no così sincero e così sorprendente viene poi trasformato altrettanto sorprendentemente in un sì da don Giussani che le apre le porte del gruppo adulto di Cl.
“A un certo punto, quella mattina dell’11 settembre, usciamo come sempre con la metropolitana all’altezza del Manhattan Bridge e nel vagone si fa improvvisamente silenzio. Un tizio vicino a me mi dice: buddy, guarda là. C’era la prima torre che stava crollando”. Jonathan Fields non riusciva a credere più in nulla: New York che andava in macerie fra le fiamme era qualcosa al di là della comprensione umana e cristiana. Ci voleva una voce che desse un senso a quel””impossibile” a quel mistero inconcepibile. A Jonathan quella voce arriva sul cellulare nel giro di pochi minuti. Don Giussani, dall’Italia, gli ricorda che anche Gerusalemme è stata distrutta una volta, ma non “la pietà divina”. Poi lo scuote: Jonathan, per favore controlla che tutti gli aderenti al movimento siano sani e salvi, voglio sapere, sono lì con voi. Era una voce che a Jonathan quel giorno è giunta deeper, più profonda di tutte le altre.
(Antonio Quaglio)