SANTIAGO DEL CILE — Difficilmente dimenticherò il suono dolce della pifilca, il ritmo del kultrum, e quella liturgia che nell’aerodromo di Maquehue, tra vecchie piste di atterraggio e capannoni dove i sicari di Pinochet torturavano e assassinavano gli indios, prendeva corpo con la “rogativa”, la preghiera del popolo Mapuche. Una celebrazione eucaristica per il progresso dei popoli con canti in lingua mapundungun e colori dell’Araucanía, la regione a sud di Santiago.
Confesso che per un attimo ho pensato di trovarmi sul set di Mission, avvolta dalle note dei trutruca, i corni sacri, e dai colori dei manti indios. Attorniata da volti scuri, segnati dalla fatica e da una vita legata alle zolle, eredi di una genia lontana e misteriosa. Invece ero nel bel mezzo di una messa oceanica in cui la fumosa e criptica parola “inculturazione” prendeva miracolosamente senso. Rito latino ed elementi indios perfettamente armonizzati. Francesco era volato nel sud del Cile, nella terra rivendicata dal popolo aborigeno più in crescita dell’America Latina: i Mapuche. Problema drammaticamente aperto per la democrazia cilena, minoranza indigena perennemente in attesa di giustizia per violenze e sottrazioni, in lotta contro latifondisti e governo. Regione di scontri, l’Araucanía, bellissima, cantata nel suo dolore dai poeti che l’hanno amata e vissuta, come Violeta Parra e Pablo Neruda. Ma anche la più povera del paese, abitata da gente abituata alle privazioni e alle prevaricazioni, dai tempi della conquista spagnola, arrivata tardi, nell’800 per la tenace resistenza degli indios.
Il legame viscerale con il proprio territorio, l’orgoglio delle tradizioni, la volontà di preservare uno stile di vita in sintonia con il creato, li ha resi un popolo in difesa. Proprio le ingiustizie di secoli, ha ricordato Francesco, nella sua omelia aperta da una frase in lingua Mapuche, insieme alle violazioni dei diritti umani, alle lacrime versate. Ma ha poi parlato di un riscatto che poco ha a che fare con le chiese bruciate dei giorni scorsi, con la rabbia che porta ad appiccare il fuoco e a distruggere vite. Ha invitato semplicemente ad entrare nell’orto di dolore insieme a Gesù per implorare il dono dell’unità per la regione. Una unità ben definita, tessuta con la pazienza di chi confeziona i chamdi, i manti con cui ci si ripara dai venti gelidi che arrivano dalle Ande. Un’arte per armonizzare colori e materiali che prelude a un’unità che non è mai uniformità.
Servono artigiani a Francesco, gente semplice e sostanzialmente pacifica come gli indios, pronti ad ascoltare e a riconoscere, per prospettare un futuro di pace e riconciliazione. I Mapuche, quasi due milioni per alcuni osservatori, costituiscono una sfida e una spina nel fianco per qualsiasi governo cileno. La loro irriducibilità è diventata una questione nazionale che non sembra trovare soluzioni. Proprio contro la “deforestazione della speranza” Francesco si è schierato. Fornendo il suo appoggio alle popolazioni autoctone, sempre dalla parte degli ultimi, denunciando la violenza dei patti sottoscritti e non mantenuti, come la “legge indigena” che nel 1993 prevedeva indennizzi e restituzione di terra, ma che di fatto è rimasta disattesa, scatenando le frange estremiste del popolo indios. Francesco ha indicato una strada diversa, condannando l’uso della violenza, il riconoscimento ottenuto con l’annientamento dell’altro. Perché anche la causa più giusta diventa falsa, quando si scelgono le armi. E al popolo Mapuche ha chiesto di dire no alla lotta armata in nome del dialogo e dell’unità. Ancora una volta realismo e giustizia. Un modo diverso di guardare all’altro Cile.