Oltre nove milioni di cittadini britannici dichiarano di essere “sempre o spesso soli”. A rivelare questa grave condizione che colpisce il quattordici percento della popolazione del Regno Unito è la British Red Cross, La Croce rossa nazionale, in un dossier dal titolo “Intrappolati in una bolla”, che riprende l’espressione icastica di un intervistato del Galles: “Come ci si sente a essere soli? Ve lo posso dire esattamente: è come stare dentro a una bolla. Vuoi venirne fuori ma non ci riesci, tenti e non ce la fai. Non puoi proprio uscirne”. La premier Theresa May corre ai ripari, annunciando l’istituzione di un Ministry of Loneliness, un vero e proprio ministero della solitudine, che dovrà affrontare la situazione e assumere iniziative per la sostenibilità sociale dei bisogni di chi è solo.



Quanto a solitudine, il resto d’Europa non è da meno. Secondo Eurostat (statistiche 2015), oltre il tredici percento dei nostro connazionali di età superiore ai sedici anni non ha una persona con cui confidarsi e alla quale chiedere aiuto. Un italiano su otto si sente solo. In Francia va peggio: si arriva quasi al diciotto percento degli abitanti. Pur non vivendo da soli, a percepirsi soli non sono unicamente gli anziani, ma anche adolescenti e giovani: in Italia, secondo l’Istat (dati 2015), questi ultimi rappresentano oltre il venti percento di tutti coloro che non hanno rapporti significativi con altre persone. Di questo passo, al titolo di popolo di santi, poeti e navigatori, potremo aggiungere anche quello, assai triste, di gente sola.



La solitudine – fisica e, ancor più, quella psicologica e spirituale – non è una qualità umana che aiuta nella vita, almeno per i più. Spesso è di ostacolo alla maturazione della personalità adulta, al raggiungimento di un equilibrio interiore, di uno sguardo positivo sull’esistenza e di una capacità di affrontare le avversità, piccole o grandi, del quotidiano e dello straordinario. Se nella salute si fa meno sentire, quando la malattia o la perdita delle forze sopraggiungono, la solitudine può essere insopportabile. Appesantisce le giornate e il lavoro, toglie il gusto del riposo, abbassa lo sguardo anche dinnanzi cose belle e buone che si palesano dinanzi. Come documentano la psicologia e la psichiatria, essere o percepirsi soli è fattore di rischio per i disturbi mentali che colpiscono la sfera cognitiva, affettiva e comportamentale di una persona in modo disadattativo e sono causa di profonda sofferenza.



“Non è bene che l’uomo sia solo” (Gn 2, 18), riconosce il Creatore. Non è in gioco solo la relazione nuziale, ma l’apertura costitutiva della persona all’altro che fa della donna e dell’uomo un essere sociale, che accoglie e viene accolto in una reciprocità di cui è tessuta tutta la vita. Essa ci è necessaria come l’aria che respiriamo e come la luce che ci avvolge, perché sia stati creati per l’amore e la comunione. E il sapiente dell’Antico Testamento aggiunge: “Guai a chi è solo” (Qo 4, 10). E’ davvero una sventura grande non poter godere di ciò che rende l’uomo grande, unico nell’universo tra le creature: la capacità del cuore di spalancarsi ad un tu di fronte al quale l’io prende coscienza di sé in ogni istante, si riprende e ricomincia a camminare, anche quando è avvilito, incupito, terrorizzato o paralizzato dalle circostanze avverse. 

La solitudine rende prigionieri della propria finitudine, come l’immagine della bolla offerta dal rapporto della Croce Rossa britannica esprime molto appropriatamente. Una finitudine che l’altro uomo o l’altra donna non possono ultimamente togliere, ma che predispongono pedagogicamente – provocatoriamente, potremmo dire – al suo spalancarsi al Mistero che solo sazia la sete di infinito che l’acqua amara della solitudine è incapace di soddisfare.

Il “ministero della solitudine” – autentico servizio, diaconia per l’uomo – è al centro dell’Avvenimento cristiano: Dio si è fatto uomo per essere compagnia all’uomo, ogni giorno, verso il suo destino. E il compito di coloro che, per grazia, sono stati raggiunti e colpiti da questo Avvenimento, è uno solo: farsi prossimi all’uomo, ad ogni uomo, viandante solitario in cerca della meta che da solo non può darsi. Non è solo e tanto questione di strumenti governativi, di risorse finanziarie, di organizzazione del welfare, di ruoli e compiti assegnati a professionisti della solitudine. Di Altro e di altri ha bisogno il giovane, l’adulto e l’anziano, il povero e il ricco, il disoccupato e l’occupato, l’autoctono e il migrante, per non essere solo nella vita e nella morte, per scoprire il senso, la ragione del vivere e del morire. Una compagnia divino-umana è la sola speranza per uscire dalla solitudine. E l’Europa e i suoi abitanti ce l’hanno nella loro storia, da duemila anni.