LIMA — Lo so, molti si infurieranno, ma io non posso farci niente: adoro quando papa Francesco fa il no-global. C’è chi gli dà del comunista, chi del rivoluzionario, chi ancora del furbo gesuita e chi sospetta persino una subdola strategia mediatica. Ma la verità è quella che predica in ogni intervista: con i poveri e gli esclusi del mondo lui si trova bene. Anzi di più, sta in paradiso. E ieri in un angolo di paradiso è stato catapultato. Puerto Maldonado, piccola cittadina dell’Amazzonia, distese di foreste pluviali e poche case. Una della zone più povere del Perù, abitata da Harakbut, Esse-ejas, Matsiguenkas, Yines, Shipibos, Ashaninkas… e un’altra ventina di etnie indios che Francesco ha imparato a conoscere e a chiamare per nome. Volti della terra e di terra, popoli che esprimono la ricchezza biologica, culturale e spirituale del polmone verde del mondo.
Volato da Lima di prima mattina verso la provincia di Tambopata, ha visto l’incrocio del fiume omonimo e del Madre de Dios dall’altro, la boscaglia tropicale e i segni della deforestazione: graffi profondi al manto verde che respira veleno per restituire purezza. Ha volato tra la bambagia di nuvole, addensamenti umidi che lasciavano presagire il caldo afoso che avrebbe trovato all’arrivo: 38 gradi effettivi e 42 percepiti. Niente in confronto all’aria bollente del Coliseo Madre de Dios, riempito dai colori e dai suoni della foresta, e dai volti di 22 etnie autoctone oltre agli uomini e donne delle Ande e a 170 rappresentanti dei popoli di tutta l’Amazzonia.
E il Papa della Laudato si’, circondato da corpi tatuati, muscoli lucidi, capelli neri come la pece e lance appuntite, ha elevato il canto francescano, la lode a Dio per la bellezza del creato. Che tu sia lodato Signore per questa opera meravigliosa. Un canto che si è spezzato per le profonde ferite inferte all’Amazzonia, mai tanto minacciata insieme ai suoi abitanti.
Si è compreso così perché il Papa degli ultimi e dei poveri è voluto arrivare qui, nel cuore pulsante della terra: immerso nella bellezza esplosiva e rigogliosa del creato ha lanciato il suo grido per difendere, oltre la terra e le culture della regione della biodiversità, la vita stessa. I pericoli sono noti: l’estrazione massiva di materie prime, la pressione delle multinazionali, la perversione di alcune politiche conservative che non tengono conto dei bisogni concreti dei popoli nativi e persino un certo ambientalismo ideologizzato che rende inaccessibile la foresta a chi la abita da sempre. Il Papa, con il realismo di sempre, ha detto senza mezzi termini che l’Amazzonia non può essere una dispensa inesauribile per gli stati, che bisogna fare qualcosa per proteggerla. E la via che ha percorso è quella, ancora una volta, della “centralità della persona umana”. Non ha genericamente lanciato proclami, non ha ingaggiato campagne sovversive, né si è eretto a paladino prometeico del mondo perduto. No, ha dato spazio, rispetto e riconoscimento a chi con la terra ha mantenuto un legame indissolubile e vitale. Francesco ha ascoltato lingue e idiomi, condiviso tradizioni e cultura, non limitandosi a chiedere per i popoli dell’Amazzonia relazioni fondate su dialogo e inclusione, ma arrivando ad eleggerli “custodi delle foreste”, portatori di una saggezza antica.
E loro, quegli uomini e quelle donne che lo costringevano a piegarsi tanto erano piccoli, non si sono sentiti più ostacoli o ingombri, ma coscienza del pianeta, memoria viva della missione affidata da Dio all’uomo. Ci insegnano che non siamo padroni assoluti del creato. Di fatto sono proprio loro, i popoli dell’Amazzonia, che ieri hanno aperto il Sinodo che proprio Francesco ha voluto per il 2019, con a tema la salvaguardia dell’ultimo angolo di paradiso.