La nomina a senatrice a vita della sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti, Liliana Segre, è stato forse l’unico momento di unità politica e culturale generato negli ultimi mesi: la scelta del Presidente Mattarella, a poco tempo dalla Giornata della Memoria del 27 gennaio, ha significato per una volta un invito condiviso, non urlato ma imponente, a non dimenticare per davvero quel dolore vivido della Shoah anche da noi in Italia. «E io non capivo, me ne stavo lì, come se avessi fatto qualcosa di male, a domandarmi se tutto era cambiato per colpa mia»: così raccontava nel 2003 in una bella intervista su Repubblica con Caterina Pasolini proprio la neo senatrice a vita. Dagli Anni Novanta, dopo un silenzio “pubblico” durato praticamente una vita, ha deciso di dedicare la propria vecchiaia nel raccontare la sua esperienza. Fa impressione perché nonostante spieghi l’essenza della Shoah nella sua meschina profondità, il racconto di Liliana non è riempito di odio. Non è violento, anche se lucidissimo e disarmante per quanto ha dovuto subire: un racconto di una donna di pace che è riuscita non solo ad uscire da Auschwitz ma riesce anche oggi a spiegare al mondo quale sia l’origine di quel male orrendo.



IL MALE E L’AMORE

Un male per nulla lontano da noi: «mi faccio carico di offrire ai miei “nipoti” la memoria di quello che è accaduto, nel cuore dell’Europa progredita, perché la generazione che vi è sopravvissuta si sta esaurendo». Nella recente intervista al Corriere della Sera dopo la nomina a senatrice, è stato chiesto a Liliana Segre come abbia fatto a resistere in vita in mezzo a quell’inferno nelle lande polacche. La risposta è spiazzante, e non te lo aspetteresti in mezzo al campo di sterminio nazista: «Mi domando sempre come ha fatto quella ragazzina a salvarsi. Mi rivedo con la testa rapata, i piedi piagati dalla marcia della morte…L’Amore. Sono stata così tanto amata, dai nonni, da mio papà, un santo perdente. Un amore che mi serve anche adesso, che è come una pelle fantastica che ripara da tutti i mali del mondo. E ho ritrovato l’amore con mio marito». Resistere è difficilissimo specie perché il male visto non è stato “minimo” ma coinvolgeva tutta la realtà allora esistente: nulla sembrava salvarsi, eppure qualcosa è successo. Come racconta ancora Liliana Segre nella testimonianza su “Deportate, esuli, profughi”: «la forza che c’è in ognuno di noi è grandissima, ed è di questa che noi  dobbiamo far tesoro. Tutti i ragazzi devono credere in questa forza, perché se loro crederanno di avere questa grandissima forza psichica più che fisica, allora non diranno male di nessuno, della famiglia, della scuola, della società se non riescono a fare qualcosa. Ognuno di noi è un mondo e se si impegna può assolutamente fare della sua vita o un capolavoro o anche una piccola vita normale che se sarà onesta e per bene sarà comunque un capolavoro. Noi abbiamo scelto la vita».



LILIANA SEGRE, “LE LEGGI RAZZIALI ‘PEGGIO’ DEL CAMPO DI STERMINIO”

Era una bambina quando nell’estate del ’38 qualcuno le disse che c’erano nuove leggi razziali per le quali non avrebbe potuto più andare alla scuola pubblica: «Lo guardai senza capire. E’ lì, e non il campo di sterminio, la vera cesura, quella che nel ricordo divide la mia infanzia tra il prima e il dopo», spiegava ancora la Segre nell’intervista su Repubblica. La vera cesura, il vero “distinguo” shoccante avvenne lì: paradossalmente “peggio” del campo di concentramento ad Auschwitz. «Il dopo è una ragazzina che si scopre diversa, cacciata dalla scuola pubblica, segnata a dito dalle amiche di una volta che la chiamano ebrea senza saper nemmeno loro che vuol dire. Diventata trasparente quando passa per strada, dimenticata negli inviti alle feste. Entrata in quella zona grigia di indifferenza che avvolgeva anche la gente a Milano, un’indifferenza ancora più dura da sopportare di una violenza fisica perché non potevi reagire ai silenzi, agli sguardi sfuggenti. E io non capivo, me ne stavo lì, come se avessi fatto qualcosa di male, a domandarmi se tutto era cambiato per colpa mia», spiega commossa Liliana Segre. Gli insulti, la gente che di colpo non si girava più a parlare con lei e un mondo che nel giro di pochissimo tempo era divenuto ostile e aggressivo: comincia così l’intero calvario della famiglia Segre, prima in città e poi in fuga verso la Svizzera dove per vengono traditi miseramente da alcuni contrabbandieri che li “vendono” a due finanzieri fascisti italiani. Nel 1943 finisce a soli 13 anni in carcere a San Vittore: un anno di angherie fino alla seconda “tappa” terribile che scatta il 30 gennaio 1944. «Dal quinto raggio in 650 vengono caricati su vagoni piombati alla stazione Centrale a furia di calci, pugni e bastonate. Sei giorni, e molti morti dopo, ammassati come animali in quegli spazi dove mancano aria, cibo e acqua, le porte si aprono. Ad Auschwitz», racconta la Pasolini su Repubblica. La pronta “risposta” della Segre è tristissima, ma anche qui senza odio o rancore: «In un attimo uomini, donne e bambini furono separati. Lasciai la mano di mio padre. Non sapevo che non l’avrei più rivisto».