“Io non mi farò mai toccare da un medico negro”. E’ successo a Cantù domenica scorsa, nell’ambulatorio del servizio di guardia: una paziente si è rifiutata di farsi visitare manifestando un atteggiamento razzista nei confronti del giovane medico di colore con quella frase perentoria e inequivocabile, rimbalzata sui media nazionali. Andi Nganso, che ha subito l’oltraggio, ha reagito con sangue freddo e una battuta ironica dai lui stesso postata su Facebook: “Ti ringrazio. Ho un quarto d’ora per bere un caffè”. Un’espressione che tradisce comunque evidentemente l’amarezza del giovane medico che ha dimostrato impegno e grinta guadagnandosi un buon inserimento sociale e professionale: giunto dal Camerun in Italia per motivi di studio circa 12 anni fa, Andi Nganso è diventato medico della Croce Rossa in diversi centri di accoglienza per migranti, approdando circa un anno fa al servizio di guardia dell’ospedale di Cantù.
L’episodio sembra in certo modo commentarsi da sé: le condanne di atteggiamenti di intolleranza e discriminazione hanno infatti trovato immediata espressione, piovute sui social insieme agli attestati di stima e solidarietà nei confronti del medico insultato. In effetti non può trovare alcuno spazio nella nostra cultura, nel modo di pensare e di ragionare, l’idea che possa essere messo in discussione il valore di un essere umano (nel nostro caso di un professionista) in base al colore della pelle. Del resto il concetto di razza scientificamente non esiste e la parola razzismo oggi segnala atteggiamenti discriminatori attinenti a determinate caratteristiche rispondenti a un gusto, un’opinione, un’idea.
Sappiamo che giudicare un altro essere umano, solo in base ad alcuni aspetti e con criteri del tutto contingenti e opinabili, ci potrebbe portare a misconoscerlo o strumentalizzarlo: nelle nostre scuole infatti non si insegna il razzismo, ma il rispetto della diversità. Quindi la nostra indignazione, che giustamente deve essere espressa con chiarezza di fronte all’episodio di Cantù, non può non indurci a riflettere sulle tante circostanze in cui questa stessa parola “razzismo” dovrebbe essere recuperata e riconosciuta per suscitare un cambiamento di mentalità, richiamare il valore della persona oltre le sue differenti caratteristiche. Per esempio, l’eliminazione di esseri umani in base a una diagnosi prenatale che ne rileva un’anomalia genetica non è razzismo? Eppure quasi nessuno, o ben pochi, rilevano questi episodi di razzismo che passano inosservati, coperti di silenzio e indifferenza.
Altro esempio: in alcuni paesi del progredito Occidente rappresenta oggi un traguardo auspicato l’eliminazione di tutti i nascituri con la sindrome di Down. Ma chi si indigna? Se la parola anti-razzismo non richiama un senso più radicale e globale per le sue battaglie, rischia di appiattirsi e svigorire il suo profondo significato.