Quando muore un genio, ancor più se è stato un genio di successo, si resta sempre interdetti nel tentativo di trarre una sintesi della sua vita: perché la si scopre, come quella di tutti noi, fatta di chiaroscuri.
La vicenda di Ingvar Kamprad, l’imprenditore svedese fondatore di Ikea scomparso ieri a 91 anni, non fa eccezione alla regola. Geniale, senz’altro. Di successo, anche. Ma con una vita costellata di stravaganze e di errori, certamente “gonfiati” da quella nuvola di attenzione morbosa e di invidia che circondano sempre, come inevitabile alone, la figura dei “re di denari”.
Davvero anche per lui vengono in mente i versi del Manzoni dedicati, in quel caso, a Napoleone: “Fu vera gloria? Ai posteri/ l’ardua sentenza: nui/ chiniam la fronte al Massimo/ Fattor, che volle in lui/ del creator suo spirito/ più vasta orma stampar”. Perché, ecco: l’orma dello spirito creatore, in Kamprad, si vedeva con chiarezza. E i 190mila dipendenti che in tutto il mondo lavorano oggi nella sua azienda sono lì ad attestarlo.
Ma se la sua sia stata vera gloria — e agli occhi di chi, poi: lui stesso, i suoi figli, il mondo? — non è facile stabilirlo.
Partiamo dalla fine, proprio dal rapporto con i suoi figli. Un po’ come Bernardo Caprotti — il patron di Esselunga scomparso nel 2016 — Kamprad aveva sempre avuto un rapporto complesso con Peter, Jonas e Mathias. Lo ha rivelato un libro cattivo, scritto da un ex dipendente di Ikea, Lennart Dahlgren, insieme al giornalista Stellan Bjork e all’economista Karl von Schulzenheim, dal titolo Ikea in rotta verso il futuro. La tesi è che Kamprad una trentina d’anni fa avrebbe simulato la cessione del controllo del gruppo a un sistema di holding e di fondazioni al fine di depistare e allontanare i figli dall’azienda. Ma in realtà avrebbe conservato la titolarità legale effettiva e una percentuale sui risultati. Finché i figli, scoperto l’inghippo, gli avrebbero fatto causa, e lui a quel punto — nel 1988 — avrebbe ceduto le armi e iniziato a ridurre il suo impegno personale.
Sarà vero?
Sta di fatto che Ikea non è quotata in Borsa — e questo non è un torto! — ma è stata spesso criticata per un’asserita opacità della sua governance e dei suoi stessi conti, che pure macinano da sempre utili su utili. Il suo fondatore, peraltro, è stato accusato un’infinità di volte dagli stessi media del suo Paese di comportamenti antisindacali e di sfruttamento del personale. E più volte si è rispolverata contro di lui la sua dichiarata simpatia per il modello nazista e la sua adesione al partita filonazista svedese, guidato da un tale — Per Engdahl — di cui Kamprad fu molto amico e sostenitore, continuando a elogiarlo anche negli Anni Cinquanta, a Olocausto ormai scoperto e a impero nazista disfatto, prima di abiurare e definire questa stagione “il più grande errore della sua vita”.
Inoltre, il suo volontario “esilio fiscale” in Svizzera, dal 1970 e fino a tre anni fa, non gli venne mai perdonato dai concittadini, essendo la Svezia uno dei Paesi a più alto indice di spontanea disciplina fiscale: venne considerato, e fu, un modo per fregare il fisco del proprio Paese.
In linea, peraltro, con un attaccamento al denaro da Paperon de’ Paperoni, grottescamente contraddistinto da una frugalità esasperata, della quale egli si vantava, guadagnandosi una generale fama di taccagno, per i comportamenti personali a dir poco parsimoniosi: mezzi pubblici per spostarsi, la spesa a fine orario per raccattare i prodotti in scadenza, viaggi in classe economica, uso e riuso di qualunque oggetto (mitico il tic di riavvolgere i nastri inaugurali, per riutilizzarli), o la mania di rimpiazzare nel frigobar della camera d’albergo la bevanda eventualmente consumata con una uguale comprata al supermercato…
Unico vizio, ammesso e naturalmente contrastato: l’alcol. “Amo l’alcol. Faccio pause da astemio per evitare problemi, ma poi ricomincio”, confessò. Anche se una longevità come quella che ha raggiunto attesta che gli eccessi alcolici veri deve essere riuscito ad evitarli…
Insomma, un vecchio bizzarro signore.
Filantropo? Pare. Ma con poche tracce, e questo potrebbe anche essere buon segno. Di umilissime origini: aveva iniziato da bambino vendendo fiammiferi, e poi facendo il fattorino a consegnare salmoni appena pescati da lui stesso. A 17 anni, la prima idea che si avvicinava a quel che sarebbe stato il suo impero: una piccola società di vendite per corrispondenza, in tandem con un lattaio che consegnava i prodotti ordinatigli per telefono o per posta. Dieci anni dopo, il suo primo mobilificio.
Di infinita ricchezza. Si stima che il suo patrimonio valga oggi 34 miliardi, non si sa se già tutti assegnati ai figli o ancora da dividere tra le varie finanziarie insediate soprattutto in Olanda, Lussemburgo e naturalmente Svizzera. Tra le proprietà non ovvie, moltissimi vigneti in Francia e una linea ferroviaria merci tra Svezia e Germania.
Detto questo, quell’impronta più vasta del normale impressa in lui, trapela dalle intuizioni geniali che sono all’origine del suo prodotto. Intelligente, dall’inizio alla fine. Produrre mobili a pezzi per ottimizzare l’uso del legno; farli montare ai clienti per dividere il risparmio possibile; disseminare ovunque cataloghi cartacei, oggi validamente affiancati dal web, perché la miglior promozione è l’immagine corredata dal prezzo conveniente; un ottimo rapporto prezzo-qualità. I mobilieri tradizionali di tutti i mercati in cui è sbarcata Ikea, Italia compresa, gli hanno fatto ogni genere di boicottaggio ma hanno sempre perso. A vincere, la qualità e la convenienza dei prodotti. Copiati da molti epigoni.
Che la terra sia lieve al bizzarro Mister Ikea.