Non si placa il caso-scandalo di Francesco Bellomo, il consigliere di Stato e magistrato indagato a Bari per estorsione dopo le denunce di alcune sue allieve e borsiste della scuola per aspiranti magistrato. Con una lunga lettera indirizzata a La Gazzetta del Mezzogiorno, il consigliere si difende a spada tratta, escludendo completamente di aver anche solo una volta approfittato delle sue studentesse e aspiranti magistrato facendo firmare loro un contratto di borsa di studio che prevedeva anche un dress code. Bellomo ha spiegato all’interno della lunga lettera pubblica che ha rilasciato dichiarazioni spontanee alla Procura di Bari in cui accusa apertamente alcune ragazze di averlo calunniato, denunciato e diffamato. Addirittura Bellomo annuncia azioni a tutela della sua persona visto che ha conservato tutti i messaggi e altro materiale che potrebbe provare la sua innocenza. Ecco innanzitutto il passaggio fondamentale che prova a replicare alle tante accuse piovute sul suo conto nelle scorse settimane: «In molte occasioni sono stato avvicinato da allieve che desideravano avere un rapporto più stretto con me, ma le relazioni sentimentali che ho avuto nella mia vita sono state quasi sempre estranee al contesto di cui si parla, e laddove maturate con persone conosciute durante la mia attività di insegnamento, sono state generate dalle ragioni proprie di questo tipo di legame, ossia da un feeling personale che non ha alcun collegamento con i contratti in questione».
LA LETTERA DEL MAGISTRATO
La lettera pubblicata oggi da La Gazzetta del Mezzogiorno poi comprende molti più spunti dove Francesco Bellomo prova a spiegare nel dettaglio il perché e il per come di tutto questo “presunto” scandalo: «le molteplici falsità, calunnie e offese rivolte alla mia persona sono divenute intollerabili e non vorrei che il mio silenzio fosse scambiato per debolezza, o implicita ammissione di fatti che non ho commesso. La pressione mediatica che si è venuta a creare sulla vicenda potrà avere influenze nefaste sulle decisioni che dovranno essere prese nei miei confronti, anche a livello disciplinare, tanto che rischio la destituzione, senza aver subito una sentenza di condanna e senza neppure essere imputato», scrive il consigliere dello stato ai colleghi della Gazzetta. Bellomo teme che infatti possa venire destituito senza per ora aver avuto alcuna condanna o responsabilità grave accertata nei confronti delle sue ex borsiste e allieve: «Chi ha firmato il contratto di borsa di studio lo ha fatto all’esito di una selezione trasparente ed in piena autonomia, tanto più che la sua stipulazione non era una condizione indispensabile per accedere al ruolo di borsista: vari studenti, sia di genere maschile che femminile, non lo hanno sottoscritto ed hanno comunque ottenuto la borsa di studio».
In particolare, Bellomo spiega come il famoso “dress code” era previsto sia per donne che per uomini e «trovava la sua ragion d’essere nel ruolo promozionale che il borsista svolgeva, certamente agevolato da un’immagine attraente (cosiddetto effetto alone). Esso, peraltro, non era vincolante e rappresentava una clausola marginale nel contesto del rapporto». Lo spunto-provocazione finale di Bellomo è alquanto interessante perché si rivolge direttamente alla stampa e all’intero circuito mediatico scattato dopo le prime denunce: «Se dovesse trovare conferma quanto ho letto, dovrei concludere che qualche corsista provi nei miei confronti astio per non aver ottenuto ciò che desiderava e che abbia elaborato il proprio vissuto in maniera totalmente distorta, magari solo per emulazione, sino a spingersi ad affermazioni calunniose e diffamatorie che mi costringeranno – inevitabilmente – ad adottare tutte le azioni necessarie a tutela della mia persona. A tal proposito rivolgo alla pubblica opinione una domanda: di queste ragazze ho conservato messaggi e quant’altro. Cosa sarebbe successo se non l’avessi fatto?».