Un sondaggio online fatto da un noto portale studentesco racconta che il 30 per cento di coloro che non partono per le gite scolastiche lo fanno perché non hanno voglia di stare con i loro compagni. Quando si parla di ragazzi ci sono sempre alcuni mantra retorici che ci impediscono di comprendere molte cose. Uno di questi recita che l’overdose di vita virtuale indebolisca le relazioni reali. Non si sa quanto questi due fattori, la non voglia di stare con i compagni e l’abuso dei social, siano tra di loro connessi. Quel che è certo è che “l’allergia ai compagni” nasce sempre da motivazioni molto concrete. In primis un’esperienza di mancata libertà: pensare di trovarsi quattro o cinque giorni nelle solite dinamiche di classe fa storcere il naso a più di un ragazzo. La classe è percepita a volte come un anfratto, un ambiente chiuso in cui non è possibile respirare ed essere soddisfatti. E allora perché spenderci dei soldi quando si può stare a casa, magari col proprio ragazzo o con la propria ragazza, ed evitare quello che già si conosce, ulteriormente appesantito dalle fobie degli insegnanti? Ma non finisce qui. Alla mancanza di libertà qualcuno aggiunge il senso di inutilità dello stare insieme: quel modo di essere amici, quei discorsi e quei commentini acidi, nulla hanno a che vedere con quello che immagino essere il mio futuro, la mia realizzazione. Sono una perdita di tempo. 



Se c’è dunque chi si sente soffocare dal microclima della classe e chi è molto più preso da quello che ci potrà essere dopo le superiori, non bisogna dimenticare, in questo catalogo di disertori sociali, chi non parte per un dolore, per l’amara constatazione che negli anni la classe non ha mantenuto quelle promesse di amicizia, di mutuo aiuto e di rispetto che sembrava aver fatto nel momento in cui si era formata. Troppe volte vivere con i compagni ha fatto soffrire, ha fatto sentire esclusi, ha messo in difficoltà. Perché, quindi, dovrei stare con te? Tu non mi fai sentire libero e soddisfatto, tu non hai a che fare col mio futuro, tu hai tradito le mie attese. Non sono solo le motivazioni che spingono a non andare in gita, bensì le recriminazioni più comuni all’interno di un matrimonio, di un’amicizia, di un rapporto di lavoro. Il problema non sono i social, ma cercare di comprendere la natura di questo disagio. 



Quello che sorprende, e che spiazza, è che questo atteggiamento che oscilla tra l’amarezza e il naïf ha le sue radici in un positivo: il desiderio di infinito che abita il cuore. La misura della compagnia che cerchiamo per la nostra vita è quella di un ambito in cui sia possibile desiderare davvero il bene. La tragedia delle classi italiane non sono i social o la “didattica poco inclusiva”, ma il fatto che siano diventati luoghi nemici del desiderio. La classe si è trasformata negli ultimi vent’anni nella casa dei risentimenti, delle piccinerie, della competizione senza quartiere: ha smesso di essere una terra dove coltivare, magari ingenuamente, magari strizzando l’occhio alle trasgressioni, i propri sogni. Così quella gente ha smesso di essere compagna di desiderio ed è rimasta semplicemente compagna di classe. Succede anche ai mariti, alle mogli, agli amici e ai colleghi più cari: ad un tratto cessano di essere compagni di desideri e di sogni per diventare semplicemente la memoria viva e carnale di una sproporzione tra l’attesa del cuore e l’imperfetta risposta della realtà. E allora, invece di sperimentare una legittima tristezza che diventa domanda che qualcosa avvenga e accada, tutto si trasforma nella prova tangibile che la vita può fallire, che per l’anelito del cuore possa non esserci speranza. 



Perché dunque partire? Perché rimanere insieme? Perché accettare un qualunque sacrificio? Credevamo di parlare di gite scolastiche, non ci rendevamo conto che stavamo guardando in faccia una delle questioni più decisive del nostro cammino di uomini, uno dei tratti più urgenti del nostro tempo.