In morte di un amico.
Eros Griggio riposi in pace. Era stato responsabile della comunità di Cl della Cattolica verso la metà degli anni Settanta. Ci eravamo incontrati qualche anno fa in Sant’Ambrogio al funerale del nostro professore di storia medievale. Da Magenta, dove viveva con la sua famiglia, era presente al congedo da una delle persone più significative dei nostri anni in università.
La pace cristiana che invochiamo per i nostri defunti non è solo la fine delle lotte della vita, ma è il passaggio dalle braccia degli amici a quelle di Dio, come ha ricordato di recente il cardinale Angelo Scola. Un passaggio di gioia dunque, anche se la nostra fede è così debole che non sa vincere la paura: timor mortis conturbat me, così un testo liturgico da cui Palestrina ha tratto un mottetto commovente.
Tacito faceva accusare i Romani dal britanno Calgaco: “Ubi solitudinem faciunt pacem appellant“, poi tradotto e parafrasato con l’adagio “dove fanno il deserto lo chiamano pace”, applicabile a tutte le conquiste violente della storia.
Ma la pace cristiana non è solitudine, non è estinzione del bene fatto, del male non evitato, degli affetti: la morte rende più vero per sempre tutto ciò che, incompiuto nella vita, si compie nell’eternità. Così le parole di Anna Vercors nell’ultimo quadro di quell’Annuncio a Maria che leggevamo spesso nell’aula San Giovanni — ricordi Eros? — ora sembrano meno astratte, più piene di carne: “La pace, chi la conosce, sa che la gioia e il dolore in parti uguali la compongono”.
In questa pace riposa, compagno e amico caro.