Caro direttore,
mi ha molto colpito il modo con cui il Papa è intervenuto alla Catechesi del mercoledì sul tema dell’aborto. Fin dagli albori della storia della Chiesa i cristiani si sono sempre contraddistinti come quelli che “non uccidono i bambini nel grembo e non li espongono a morte certa”, ma è come se questo giudizio, questa scelta di fondo — spesso anche contraddetta e tradita dagli stessi uomini di Chiesa — avesse generato nel tempo una coscienza nuova che ha portato negli ultimi anni a guardare all’aborto non soltanto come atto, ma anche e soprattutto come gesto. Il gesto, infatti, è molto più della semplice azione, ma è quello che l’azione porta e comporta, quello che la genera e quello che genera. Valutare i comportamenti umani solo come atti produce moralismi senza presa sulla vita; considerarli come gesti, al contrario, fa emergere la posizione in cui si deve trovare esistenzialmente la persona per compierli.



Così quando Francesco dice che “non si può, non è giusto, fare fuori un essere umano, benché piccolo, per risolvere un problema” afferma il fatto che all’origine dell’aborto stia un problema con la realtà. Ma non la realtà intesa come l’insieme delle cose che catturano l’attenzione della vita, quanto la realtà come dato, come dono, come “esserci gratuito dell’Essere”. L’uomo occidentale, rifiutata ogni posizione verso la vita che provenisse dalla tradizione, si è trovato spiazzato di fronte all’imponenza del dato e all’impotenza sua — strutturale — ad accoglierlo. Nel momento in cui il Vescovo di Roma afferma che abortire “è come affittare un sicario per risolvere un problema” egli denunzia l’incapacità dell’Io di stare davanti a ciò che c’è, di entrare in contatto con le cose e con gli altri allo stesso modo con cui si entra in contatto con una grande occasione. 



Quest’incapacità dinnanzi al dato fa venire a galla tutta la distanza da Colui che dà, dal Datore, non soltanto perché non riconosciuto, ma soprattutto perché considerato assente, inesistente. 

La catechesi del Papa restituisce dunque la questione dell’aborto sotto una luce nuova: non come un delitto commesso da peccatori, quanto come l’estremo orrore perpetrato da orfani, da uomini orfani e soli. Così soli da perdere ogni speranza, così soli da diventare violenti e cattivi, così soli da guardare alla vita — sempre e comunque — come un problema da risolvere e non come uno spazio in cui imparare a stare. Per diventare più umani, per non perdersi la gioia di riscoprirsi figli. Senza bisogno di sicari che sistemino le cose, senza bisogno di avere la vita a posto per cominciare a vivere.



In questo modo Bergoglio indica la strada autentica per ritrovare il valore della vita e riaffermarlo a livello sociale: non la strada delle posizioni nominalistiche che durano il lasso di una stagione politica, ma la strada di un’educazione alla fede che faccia sorgere una personalità autentica, una personalità cristallina, capace di abbracciare con solidità ogni dato dell’esistenza. Anche quello di un bimbo magari non cercato, ma offerto all’Io come possibilità. Come nuovo inizio. 

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