In nome del popolo italiano, la Corte di Cassazione ha emesso il verdetto definitivo: il processo contro Massimo Giuseppe Bossetti, condannato all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio, si è svolto correttamente. Le contestazioni mosse dalla difesa ai metodi utilizzati per l’esame del Dna e per la valutazione dei risultati sono state respinte: tutto si è svolto nel rispetto delle norme che regolano i procedimenti penali, la sentenza è confermata. L’ultima parola è stata pronunciata, sulla vicenda cala il sipario definitivo: per la giustizia italiana l’assassino di Yara è lui, Bossetti.



Io, che ho avuto la ventura di seguire un po’ la vicenda per il Sussidiario fin dall’inizio, non mi sogno nemmeno di entrare nel merito della valutazione dei giudici: hanno molti più elementi di me, sono più competenti di me, hanno sicuramente giudicato per il meglio. Di mio, posso solo esprimere un vago disagio. Non — ripeto — rispetto alla sentenza. Direi piuttosto rispetto a un clima; meglio, rispetto a una differenza di clima che ho respirato.



Tutte le volte che sono stato a Brembate, mi sono imbattuto in gente provata dal dolore, segnata dalla paura, desiderosa di giustizia; ma mai rabbiosa, mai incattivita. Durante il processo, mi è sembrato invece di percepire nei confronti di Bossetti un clima di astio, di disprezzo, di ribrezzo che a Brembate non c’era.

Non c’entra niente con il merito della sentenza, lo so bene. C’entra con la mia umanità, con la qualità della nostra convivenza civile. C’entra con il rischio umanissimo di scivolare dalla giustizia alla vendetta, con la tentazione di cercare un colpevole a tutti costi per ristabilire un equilibrio spezzato. Non sto parlando — ripeto, non vorrei finire in galera per vilipendio alla Corte o qualcosa del genere — di questa sentenza, che non ho motivo di mettere in discussione. Parlo di un clima nel Paese, che se viene alimentato può finire, prima o poi, per cercare un colpevole a tutti i costi per tener buona la nostra sete di vendetta.



Può portarci a dimenticare, prima o poi, che per la nostra tradizione giuridica, da sempre, è meglio un colpevole a piede libero che un innocente dietro le sbarre.