La canonizzazione di Paolo VI eleva agli altari un grande maestro del nostro tempo, capace di imprimere il suo sigillo nella storia, non solo del XX secolo. Salito al soglio durante il Concilio lo traghettò da timoniere, consegnandoci nell’ultimo discorso, il 7 dicembre 1965, il senso di quello che è stato un evento epocale. A guardarlo dalla prospettiva più ampia della storia, esso come importanza è pari infatti ad un altro evento di grande portata e quasi contemporaneo: il ritorno di una porzione degli ebrei nella terra di Cànaan, con la conseguente fondazione dello Stato di Israele nel 1948, terra promessa un tempo da Dio ad Abramo e alla sua discendenza. Pur collocati su piani diversi essi devono essere letti come una sorta di riorientamento della storia. È significativo, da questo punto di vista, che, quell'”instancabile apostolo”, come lo ha definito papa Francesco, decise in solitudine il suo primo viaggio proprio in Terra Santa, nel gennaio 1964: dai tempi della partenza di san Pietro mai un vescovo di Roma vi aveva fatto ritorno.
Il Concilio nelle parole di Montini è stato l’annuncio di una nuova età: svolgendo una necessaria opera di aggiornamento del “deposito” rivelato, ha permesso infatti uno sbocco alla crisi apparentemente senza uscita di tutta un’epoca che, a partire da Cartesio per finire al Novecento, si è dimostrata un’esperienza incapace di realizzare le sue attese, a causa del suo spirito antropocentrico. Lo stesso Montini, nel discorso conclusivo, evidenziava come il Concilio si fosse svolto in “un tempo che ognuno riconosce come rivolto alla conquista della terra piuttosto che al regno dei cieli; un tempo, in cui la dimenticanza di Dio si fa abituale e sembra, a torto, suggerita dal progresso scientifico”. Non a caso alcuni mesi dopo la conclusione del Concilio il grande filosofo tedesco Heidegger, nella famosa intervista a Der Spiegel, lanciava un disperato appello: “Solo un Dio, ormai, può aiutarci a trovare una via di scampo”, per liberare il mondo dal nichilismo della tecnica. Con questa coscienza certa e umile Paolo VI condusse in porto il Concilio, persuaso che la Chiesa doveva rispondere ai “segni dei tempi”. Del resto, l’immagine del buon Samaritano, evocata proprio da Paolo VI all’inizio del discorso conclusivo, testimonia il paradigma della spiritualità del Concilio, mosso dall’esigenza di guarire più che di colpire: “tutta questa ricchezza dottrinale, disse Paolo VI, è rivolta in un’unica direzione: servire l’uomo”.
La grandezza di Montini fu di avviare verso un esito positivo ciò che in realtà fu un cammino assai lungo e faticoso, iniziato col Concilio Vaticano I e sospeso per la presa di Roma, ma di cui si avvertiva la necessità con crescente consapevolezza. Lo stesso Berdjaev nel 1923 si rammaricava del fatto che “le verità dell’antropologia non sono state ancora sufficientemente spiegate dal cristianesimo dei concili ecumenici e dei dottori della Chiesa”. Quarant’anni dopo, Paolo VI chiudeva il Concilio consapevole di aver risposto a questa esigenza, dopo secoli di incomprensioni tra “la Chiesa e l’umanità”, per dirla alla Eliot, acuite da un progresso umano cercato dal punto di vista di una ragione e di una libertà centrate su se stesse, e che, confinando la fede sul piano meramente soprannaturale, hanno generato un dualismo tra la fede e la vita: dualismo che proprio la dichiarazione conciliare Gaudium et Spes annovera “tra i più gravi mali del nostro tempo”.
Il Concilio non ha inteso condannare questo tentativo, ma ha riconosciute come legittime le esigenze di autenticità proprie dell’uomo moderno; e tuttavia le ha redente dallo spirito antropocentrico in cui si trovavano come sviate, se non perfino contraddette. Affermando che “il nostro umanesimo si fa teocentrico”, Paolo VI ha voluto esprimere il lavoro dei padri conciliari come teso a restituire alla fede la capacità di farsi cultura, quella capacità cioè di coltivazione dell’umano che è nella vocazione propria dell’uomo, riaprendo di fatto la possibilità di un incontro più aperto e fecondo tra l’insopprimibile senso religioso e la vita concreta dell’uomo moderno.
In questo senso, il Concilio ha saputo essere una sintesi di “fedeltà” alla tradizione custodita dalla Chiesa, ma nello stesso tempo di “dinamica”, vale a dire di aggiornamento delle forme storiche di per sé mutevoli, mutando abitudini largamente radicate nella coscienza cattolica, abituata a vedere nello Stato un necessario appoggio alla religione: non cambiava dunque il cristianesimo ma la cristianità, ovvero le forme concrete in cui la fede si esprime culturalmente. E cambiava nel senso che non erano più “le cose umane” a proteggere “le cose divine”, ma l’opposto, lasciando la Chiesa libera dalle infeudazioni alle strutture temporali e capace di vivificare dall’interno l’ordine temporale. Da questo punto di vista, decisivo appare il solenne discorso tenuto in Campidoglio da Montini il giorno prima dell’inizio del Concilio, dal titolo “Roma e il Concilio”. In quell’occasione egli affrontò con lucidità il tema della questione romana, affermando come il Papato uscì “privato, anzi sollevato, dal potere temporale” , in quanto “riprese con inusitato vigore le sue funzioni di Maestro di vita e di testimonio del Vangelo, così da salire a tanta altezza nel governo spirituale della Chiesa e nell’irradiazione morale sul mondo, come prima non mai”.
Nella coscienza di Montini il Concilio rappresenta così l’esito ultimo di questa traiettoria di eterogenesi dei fini di un mondo moderno che, con le sue esigenze di libertà, ha “costretto” la Chiesa a recuperare e aggiornare il suo patrimonio storico più autentico, sciogliendo Il dramma dell’umanesimo ateo, come ebbe a definirlo De Lubac. In questo sta il carattere missionario e profetico del Concilio e di san Paolo VI che se ne fece interprete: “esprimere un giudizio su quei valori che oggi sono in grandissima stima” e “di ricondurli alla loro divina sorgente”, riconciliando la Chiesa e l’umanità.