Come ampiamente prevedibile e come del resto già annunciato dal suo legale, Stefano Binda ricorrerà in Appello dopo la condanna all’ergastolo in primo grado dai giudici della Corte di Assise di Varese per l’omicidio di Lidia Macchi. La studentessa trovata uccisa con 29 coltellate nel gennaio del 1987 in un bosco a Cittiglio aveva trovato “giustizia” dopo tantissimi anni ricchi di depistaggi, false piste e prove perse lo scorso 24 aprile con la condanna dell’unico vero indagato per il suo assassinio; oggi però l’avvocato difensore di Binda, Patrizia Esposito, assieme al collega Sergio Martelli hanno depositato il ricorso alla Corte di Appello di Milano, come annunciato dall’Ansa. In qualche modo il tutto era stato “previsto” quando già alla lettura della sentenza la difesa aveva commentato laconica «decisione dei giudici ingiusta e inaspettata». Di completo e opposto parere è ovviamente quello dell’accusa che da anni cura gli interessi della famiglia Macchi, colpita dalla tremenda tragedia più di 30 anni fa: Daniele Pizzi, legale dei genitori di Lidia, ha commentato dopo il ricorso presentato oggi «Ritengo che la sentenza di condanna emessa dalla Corte d’Assise di Varese sia stata ampiamente e validamente motivata, dunque non ho dubbi che, nonostante l’impugnazione presentata dai suoi difensori, le responsabilità di Binda verranno riconosciute anche dalla Corte d’Appello di Milano».
PERCHÈ STEFANO BINDA ERA STATO CONDANNATO
Le motivazioni della sentenza di primo grado che ha visto Stefano Binda condannato all’ergastolo avevano mostrato qualche mese fa un complesso e lungo plico di documenti di 200 pagine: «La Corte ha tenuto conto del numero elevatissimo e dell’univocità degli indizi; essi sono più o meno significativi nella loro singola portata ma, in seno ad una valutazione globale, risultano tutti convergenti verso l’indicazione di penale responsabilità dell’imputato, ben al di là di una mera coincidenza». Secondo i giudici di Varese, nel condannare l’ex compagno di scuola di Lidia, avevano aggiunto «il giudice di merito non può limitarsi ad una valutazione atomistica e parcellizzata e degli indizi né procedere ad una mera sommatoria di questi ultimi, ma deve preliminarmente valutare i singoli argomenti indiziari per verificarne la certezza (nel senso che deve trattarsi di fatti realmente esistente e non solo verosimili o supposti) e l’intrinseca valenza dimostrativa (di norma solo possibilistica), e successivamente procedere ad un esame globale degli elementi certi per accertare se la relativa ambiguità di ciascuno di essi isolatamente considerato, possa in una visione unitaria risolversi consentendo di attribuire il reato all’imputato ‘al di là di ogni ragionevole dubbio».