Per la prima volta nel 2005, a Napoli, il centro di psicologia clinica dell’Università Federico II prese in carico un minore con disforia di genere: chiedeva assistenza psicologica perché non accettava il proprio genere biologico e voleva aiuto per intraprendere la strada del cambiamento di sesso. Oggi, nello stesso centro, sono trentuno i minori presi in carico con la stessa richiesta. A Londra, nello stesso periodo, i casi sono aumentati del 400 per cento. Dietro ai fatti, a questi numeri, tante verità meriterebbero di essere raccontate.
Anzitutto c’è quella della colonizzazione ideologica: un preciso disegno di egemonia sull’umano che riduce i bisogni dei singoli ad una mera dimensione orizzontale, infarcendoli di risposte facili da consumare, in grado di generare adulti indifferenti e incuranti della realtà e di chi la gestisce, totalmente assorbiti dal proprio Io. Poi c’è la verità della psicologia, che racconta di una fatica crescente a definire se stessi, una fragilità che trascina un processo normale — quello dell’appropriazione dell’identità sessuale — in un’epoca della vita non convenzionale, quella dell’adolescenza appunto, in cui gran parte di questi nodi dovrebbero essere già stati sciolti. Infine c’è la verità di chi ritiene che la repressione sessuale orchestrata dall’occidente per reprimere il desiderio umano nei canali istituzionali più facilmente gestibili dal sistema abbia negli ultimi vent’anni ceduto il passo a un’evidente affermazione di se stessi, finalmente libera dai dogmatismi di una morale da schiavi.
Tutte queste spiegazioni non riescono, tuttavia, a raccontare il mistero di un cuore che, ad un certo punto, decide che il problema non è la realtà, non sono le cose o le persone, ma è l’Io. Sono io che non sono quello che sono, sono io ad essere sbagliato, prigioniero di un corpo che mi mortifica e mi umilia. Improvvisamente possiedo una risposta — quella di poter diventare me stesso cambiando quello che gli altri mi impongono di essere — che sembra poter portare via non soltanto questo mio corpo, ma anche la vita che ad esso è inscindibilmente legata. È come se un ultimo atto di violenza, finale e definitiva, potesse d’un tratto diventare gesto di liberazione, nuovo inizio.
Come si sta il giorno dopo in cui ti sei tolto la vita? Come si sta il giorno dopo la morte? Qualcuno definirebbe tutto questo “mostruoso”, ma in questa mia mostruosità, in questo spazio che ai benpensanti fa così schifo da non essere da loro avvicinato, finalmente può trovare spazio tutto il mio dolore, il mio grido per un’esistenza a cui voglio dare un senso. Ed è lì che, quasi in ultimo impeto di dare ordine al caos, comincio a sperimentare forme di fisicità e di bene che mettono davvero a tacere tutto l’abisso che mi porto con me. Sono un colonizzato, uno che risponde alla vita che ha dentro con le evidenze di cui mi hanno convinto là fuori; sono un indeterminato, uno che tra il maschile e il femminile ha scelto il neutro; sono un liberato, uno che fuori dalle convenzioni ha costruito nuovi riti e nuove convenzioni. Illudendosi che il dolore potesse non solo tacere, ma finire. Così, mentre tutti mi giudicano e cercano di spiegarmi, io resto ancora in attesa di qualcuno che veda il mio dolore. E che ricominci a parlargli, a farlo sentire qualcuno, a legittimarlo, a dare uno spazio di vita a ciò che, in fondo, io vorrei solo curare con la morte.
Non stupisca se i casi di disforia di genere aumentano: la ricerca di se stessi, se vissuta all’ombra della paura di non essere amati, non porta lontano. Porta solo a odiarsi. A meno che, e forse è questa è la più dura delle illusioni da uccidere, Qualcuno non fermi tutto e — senza tante parole — ricominci a perdonare quello che nemmeno io ho saputo accogliere. Quella strana cosa che è dentro di me e che tutti chiamano “Io”.