Il 31 gennaio 2018 è entrata in vigore la legge 22 dicembre 2017 n. 219, contenente “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, comunemente conosciuta come legge sulle Dat. Una legge sul fine vita, ampiamente discussa in Parlamento nelle ultime due legislature. Per questo leggo, con sorpresa, che la Corte costituzionale chiede all’attuale Parlamento di legiferare entro settembre 2019 su di un tema che è già stato ampiamente sviscerato durante il dibattito nelle diverse commissioni e in Aula. Discussi tutti gli emendamenti presentati e votati uno per uno, con una documentazione accessibile a tutti sia sul sito della Camera che del Senato.



Si tratta di una legge con alcune luci e moltissime ombre, che introduce surrettiziamente un principio di eutanasia passiva, sfruttando la contraddittorietà intrinseca di alcune delle sue affermazioni. Già nel primo articolo, tra il comma 1 e il comma 5, si evidenzia il rischio di una reciproca delegittimazione. Il comma 1, infatti, afferma di voler tutelare: il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona. E quindi sottolinea la necessità di acquisirne il consenso informato: nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata. Ma poco più avanti, al comma 5, afferma: “Ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte, qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia (…) Ai fini della presente legge, sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici (…)”. Il rifiuto del paziente ad alimentarsi, rifiutando acqua e cibo, nei modi in cui la sua stessa patologia lo consente, equivale a un’espressa manifestazione di volontà di morte. In altri termini, il paziente decide di lasciarsi morire, senza che familiari e personale medico-sanitario possano fare alcunché per impedirlo: è il rispetto dovuto alla sua autodeterminazione.



Sappiamo tutti quanto pesò la morte di Dj Fabo per portare a termine il dibattito sulla legge, creando un clima emotivo ad alta tensione in un’opinione pubblica tenuta costantemente aggiornata sulla sua drammatica vicenda e sulla sua volontà di por fine alla sua vita.

Marco Cappato apparve, in quella occasione, come il suo liberatore, ma anche come colui che ne facilitò il suicidio, accompagnandolo nella clinica in Svizzera, ben sapendo quale fosse la volontà del paziente. Con il suo ruolo, almeno per quanto è dato di capire dalle ripetute interviste e da una narrazione rimbalzata attraverso gli echi mediatici di tv e stampa, si è creata una situazione che è andata ben oltre i limiti dell’eutanasia passiva.



Marco Cappato ha indubbiamente facilitato il suicidio di Fabo, e questo era il quesito posto alla Corte costituzionale; a questo quesito la Corte avrebbe dovuto rispondere verificando o meno la sua corrispondenza con l’articolo 580 del Codice penale. E’ esattamente quanto chiedeva la Corte di assise di Milano, ponendo il quesito alla Corte costituzionale: dichiarare illegittimo l’articolo 580 del Codice penale.

Ma la Corte costituzionale, dopo giorni di discussione, ha rinviato il suo giudizio, chiedendo alle Camere di legiferare entro un anno. Evidentemente non è sul fine vita in senso lato che si chiede di legiferare: la legge c’è già, e come già indicato, non è una bella legge proprio per gli spiragli che lascia aperti a eventuali forme di eutanasia passiva. Si chiede tout court una legge che abolisca l’articolo 580 del Codice penale.

Infatti, se la Corte non ha riconosciuto il ruolo avuto da Cappato nell’assistere Dj Fabo nel suo morire e ha rimandato di un anno il suo giudizio, evidentemente è solo perché vuole che la nuova legge abolisca l’articolo 580 del Codice penale. La Corte, in altri termini, chiede al Parlamento di intervenire per depenalizzare il suicidio assistito con l’abolizione dell’articolo 580 e forse qualcuno auspica che si abolisca anche l’articolo 579: l’omicidio del consenziente.

In questo modo Marco Cappato, liberato da ogni forma di colpa, apparirebbe per quello che è sempre voluto apparire: difensore dei diritti umani, soprattutto del diritto alla morte, totalmente dimentico del comma 1 della medesima legge, che invece tutela il diritto alla vita.

Della famosa tutela del diritto alla vita, alla salute, alla dignità è rimasto solo il diritto all’autodeterminazione, che in molte circostanze può apparire appannato dal dolore, dalla sofferenza, dalla solitudine e dalle tante passioni tristi che assalgono la nostra anima, come accade con la depressione. Non a caso in Olanda abbiamo già avuto i primi casi di eutanasia in pazienti depressi.

In questo clima ci preoccupa enormemente quanto affermato dal presidente della Camera, Roberto Fico: “La decisione della Consulta è un’occasione importante per il Parlamento. Serve più che mai adesso aprire il dibattito su un argomento delicato rispetto al quale ci deve essere attenzione e sensibilità. La politica affronti il tema”. Cioè la legge sull’eutanasia, su cui il M5s ha già presentato e ripresentato diversi disegni di legge. In questo caso chissà cosa farebbe la Lega: se un’ulteriore merce di scambio per difendere temi di suo interesse o se avrebbe il coraggio di por fine a un’alleanza almeno imbarazzante.