Luigi Chiatti chiede scusa. Il mostro di Foligno — lui stesso si definì in questo modo nei giorni del processo — ritorna alla ribalta delle cronache dopo venticinque anni. Dopo che una sentenza lo condannò in via definitiva a due ergastoli, commutati poi in trent’anni di pena a causa della riconosciuta seminfermità mentale, per gli omicidi di due bambini, Lorenzo Paolucci e Simone Allegretti, avvenuti a pochi mesi di distanza nel 1992. Lo fa con una lettera, pubblicata da un quotidiano locale, nella quale rivendica di essere una persona diversa, “una luce non riconosciuta che vuole essere accolta semplicemente perché è luce, non è più negativa ma positiva, e che vuole tanto dare agli altri, trasmettere se stessa e dare un senso a tutto ciò che è avvenuto e che non doveva avvenire”.
Sarebbe semplice sia stigmatizzare la missiva di Chiatti, bollandola come irricevibile da un mostro del genere, sia cadere nella retorica della seconda possibilità e del cambiamento sempre possibile dell’essere umano, argomentazioni vere, ma che appaiono troppo piccole di fronte alla grandezza del crimine compiuto. La verità è che nessuno conosce il cammino di Chiatti e che quel che si sa è troppo poco perché ci si possa fare un’opinione solida su una vicenda così inquietante e terribile: è la giustizia — questa volta intesa nel suo più nobile significato — che deve accertare e capire il da farsi per il bene del condannato e di tutti.
Eppure c’è un passaggio della lettera di Chiatti che si presta ad una considerazione in più. Il suo presentarsi come luce positiva, non più negativa, tradisce un percorso non del tutto compiuto, quanto meno interrotto. Infatti chi ha davvero affrontato se stesso, nelle dure oscurità della coscienza, ha imparato che nella vita non si è mai totalmente luce o totalmente tenebra, ma che — fin dall’Antigone di Sofocle — l’uomo è sempre da considerarsi come un essere deinòs, straordinario, laddove il termine individua una vox media, ossia indica e la grandezza ammirabile della natura umana, e il suo potenziale mostruoso e terrificante. Non si finisce mai di essere mostri perché non si è stati mai del tutto eroi. Identificare se stessi su un fronte piuttosto che su un altro mostra una parte di sé tutt’altro che luminosa, con la quale non si sono ancora fatti totalmente i conti. Rivela la voglia di lasciarsi alle spalle quello che si è fatto, illudendosi che le azioni non raccontino quelli che siamo, quasi che il male non fosse una continua tentazione per l’animo umano.
Certamente la persona di Chiatti non si risolve in una lettera o in qualche stentata affermazione, tuttavia la presenza di un così evidente insoluto getta più di un dubbio sul suo percorso di recupero. Troppo spesso la nostra società paga il prezzo di mettere sugli altari l’uomo equilibrato, cercando di equilibrare gli squilibrati e fissando una misura di questo equilibrio che s’ammanti di normalità. Il tempo presente ha bisogno altresì di persone riconciliate, capaci di accogliere se stesse per quello che sono, dilaniate dal dolore che provano per essere state il male e per sentire ancora viva nelle loro viscere la possibilità di tornare ad esserlo. Questo non accade semplicemente per un percorso psicologico, come se l’uomo avesse in sé tutta l’energia per abbracciarsi fino in fondo, ma avviene dentro una relazione che fa emergere la possibilità di bene che ciascuno, qualunque situazione viva e qualunque cosa abbia fatto, è, rimane.
Chiatti non deve aver fretta di passare nella squadra degli innocenti, ma avere il coraggio di riconoscersi fino in fondo colpevole, ostaggio di un male che non può essere cancellato. Ma da cui ci si può liberare: non gettandoselo alle spalle, ma accettando che esso è una parte di te, un punto della tua umanità che non viene perduto, ma che può, misteriosamente e drammaticamente, essere salvato.