Lo Stato del Vaticano, mosso dalla decisione di Papa Francesco, inasprisce le pene previste per condotte devianti e abusi su minori da parte dei rappresentanti della chiesa, contestualmente riconosce il reato di tortura e abolisce la pena dell’ergastolo che, sebbene disapplicata, viene rimodulata a circa un trentennio di pena. Sulla quaestio “pena infinita” o “condanna a vita in carcere”, sembra che i rappresentanti politici dello Stato italiano abbiano arenato confronti e discettazioni etico-giuridiche sul tema.



Nel 1998 si era aperta una parentesi caratterizzata da una proposta abolizionista che obbligò tuttavia alla ritirata quando la Consulta sancì la legittimità della norma. Decisione giustificata dal ritaglio possibilista di applicazione della liberazione condizionale dopo ventisei anni di carcere scontato. Negli anni ’70 lo statista Aldo Moro si oppose fermamente alla pena dell’ergastolo. Nel corso delle sue lezioni agli studenti evidenziava: “La pena perpetua, priva com’è di qualsiasi speranza, di qualsiasi prospettiva, di qualsiasi sollecitazione al pentimento, appare crudele e disumana, non meno di quanto lo sia la pena di morte”. In effetti, l’ergastolo confligge con il principio positivo di rieducazione del condannato e del suo possibile reintegro sociale. Con un’azione spontanea e personale, Papa Francesco si è assunto la responsabilità dell’abolizione della pena infinita conformandosi anche alle inversioni di tendenza registratesi nell’ambito della Corte Europea dei diritti dell’uomo che, ultimamente e attraverso la sentenza Vinter del 9 luglio, ha evidenziato confliggenza rispetto al corollario dei diritti umani garantiti dalla Cedu. In specie si è determinato che I “fine pena mai” sono compatibili con la CEDU solo se per il recluso risulta prevista almeno una possibilità di liberazione o revisione.



Tra l’altro, il paradosso risiede nella circostanza di uno Stato che tenta di educare o rieducare a un principio che non sia vendicativo per debellare quei valori di vendetta e di ritorsioni personali che mantengono in essere le associazioni delinquenziali ma al contempo tenta esso stesso di vendicare mediante pene inumane, degradanti congelando il tempo a privazione illimitata e indeterminata nelle possibilità esistenziali. Una morte dell’esistenza gestita dallo Stato con il contagocce non può essere considerata pena giusta o pena utile. Essa nega il concetto stesso di crisi , o meglio, di processo di crisi, da intendersi nella sua accezione positiva e nella sua molteplicità di significato: giudizio, scelta, separazione ma anche punto di svolta.



Riconoscere una pena infinita significa condannare le identità soggettive al presente deprivandole di quella crisi positiva come punto decisivo del cambiamento o, così come definito dal filosofo Galimberti ”momento della vita caratterizzato dalla rottura dell’equilibrio precedentemente acquisito e dalla necessità di trasformare gli schemi consueti di comportamento che si rivelano non più adeguati a far fronte alla situazione presente.” L’ergastolo, dunque, congela quel naturale processo dinamico di sviluppo della personalità e delle identità sociali che sono di per sé, così come riconosciuto dalle scienze umane, sempre in fieri.    

Nel 2008 si conteggiavano 1408 presenze di ergastolani nelle nostre carceri, oggi ce ne sono 1582, a ciò si aggiunga che alcuni sono cittadini stranieri e privi di riferimenti sul territorio, per cui ancora più arduo per la magistratura decidere per un’apertura ai permessi premio o alla liberazione condizionale. L’ergastolo riproduce sempre le stesse giornate, un po’ come accade nel film Ricomincio da capo in cui il protagonista, Bill Murray, resta intrappolato in uno strano loop temporale che lo obbliga a vivere quotidianamente lo stesso identico giorno; eppure, a seguito di vicissitudini non propriamente positive, il finale evidenzierà un uomo cambiato e migliore. Vaticano ed Europa hanno ritagliato le linee guida. Ora spetterebbe allo Stato -nel riproporsi come stato di diritto e nell’evidenza di un obbligo alla civiltà – superare la condanna a vita affinché anche gli operatori impegnati in processi di cambiamento sociale in carcere possano continuare ad essere testimoni significativi di vita e non di morte.

 

(Evelina Cataldo)

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