Siamo nei primi anni novanta. Mi chiama un amico infettivologo che lavora all’ospedale Sacco di Milano. “Puoi passare da me… ho un ‘cliente’ per la vostra nuova casa per malati terminali di Aids”.

Il mattino dopo sono al Sacco. “Allora, parlami del caso: a convocarmi così, deve essere complesso…”. “L’abbiamo preso per i capelli. Sembra un compendio delle malattie che ho studiato in vita mia. Ora è in isolamento al reparto di malattie infettive, ma  si sta riprendendo. Fra un paio di settimane al massimo dovremo dimetterlo. E se non lo prendete voi, dove va a morire?”



“Ma esattamente, la diagnosi qual è?” “Aids, come ti accennavo al telefono. Ma in un fisico già minato da una vita da sbandato: la droga gli ha fatto perdere il lavoro, i suoi l’hanno sbattuto fuori di casa e ha cominciato a dormire chissà dove, così si è messo a spacciare ed è arrivato a prostituirsi per vivere e pagarsi  la droga”.



In quegli anni non ci sono cure efficaci contro l’Aids, che diventa “conclamato” dopo qualche anno di sieropositività. Il virus si diffonde essenzialmente tramite lo scambio di siringhe infette; in seconda battuta, per il moltiplicarsi di rapporti sessuali con soggetti diversi, che alimenta la possibilità di contagio.

L’invito ad una vita affettiva ordinata sembra da bigotti, e ogni cenno ai rischi dei rapporti omosessuali suona discriminatorio (oggi si direbbe “omofobo”). Si rinuncia all’educazione e si passa in forze alla prevenzione, che vede uniti laici e molti cattolici. Dilagano gli appelli alla siringa sempre nuova e ai rapporti protetti. Come dire: comprate più siringhe e più preservativi e fate quello che volete. Va’ dove ti porta l’istintività, vien da concludere parafrasando il titolo di un successo editoriale di quegli anni: “Va’ dove ti porta il cuore”.



All’epoca, dicevo, chi contrae l’Aids ha la sorte segnata. Muore in ospedale o in clinica, ma muore comunque. Le cure sono sempre le stesse, in attesa che se ne trovino di risolutive. E allora? Perché aprire una casa per malati terminali? Quali problemi può risolvere? Nessuno. 

Ma chi muore non è un problema da risolvere, è una persona con un problema da condividere. Ad un eroinomane che ha avuto bisogno di droga per vivere, non è sufficiente altra droga per morire: oltre ai sedativi, occorre dargli amore e stargli vicino.

Condividere i problemi dell’altro è la legge della carità. L’avevo vissuto sulla mia pelle molti anni prima.

Una domenica mattina, mi fermo a parlare con don Giussani dopo la Messa in Santo Stefano. Nota subito che qualcosa non va: “Come mai sei così cupo?” Trattengo a stento le lacrime e gli racconto che i miei genitori volevano dividersi. Per tutta risposta, mi dice che deve andare a Desio a mangiare da sua madre, e mi chiede di accompagnarlo. Parliamo di tutto. Mi racconta che è appena stato in Brasile; che a Macapà ha conosciuto un vescovo in gamba, che Marcello Candia vuole costruire un ospedale, eccetera. Finalmente, mi distraggo dai miei pensieri.

Don Giussani ha una quarantina d’anni ed è un ciclone. Entra in casa, abbraccia la madre e le dice con la solita voce roca, guardandomi di sottecchi: “Mamma, ti ho portato la maglieria sporca da lavare… mangiamo con questo mio amico, ché poi devo scappare”.

La mamma è una donna semplice, non si capacita che suo figlio sia sempre in giro, e sempre di corsa. Rivolgendosi a me, sbotta: “Quand’è che metterà la testa a posto il mio don Luigi?”. Rido di gusto. Don Giussani mi guarda e sorride, per le parole della madre e per la mia ritrovata letizia. Non ha risolto il problema della mia crisi familiare. Mi è stato vicino.

La carità parte da qui, dal farsi prossimo, comunque e in ogni caso: da qui nasce l’apertura una casa per malati di Aids da parte de La Strada, l’associazione che dirigo da qualche tempo, nel campo del disagio.

Gli operatori curano, per quanto possibile, le malattie legate al crollo delle difese immunitarie; assistono chi è ormai allettato; accompagnano gli ospiti verso una morte dignitosa che avviene mediamente ad un anno dal ricovero, tra cure e premure di chi li assiste.

Decine di malati, in quegli anni, sono morti così: nessuno ha mai mostrato il desiderio di farla finita, molti hanno avuto negli ultimi mesi di vita quel “casino d’affetto” che non avevano mai avuto prima, come aveva detto un ospite poco prima di morire.

Per la cronaca di questi tempi, la morte dignitosa non è quella che ho visto nella nostra casa per malati terminali. È quella associata al “fine vita” o all’eutanasia, leggi che risponderebbero a pretesi “diritti civili”. Ci avviamo verso la morte (poco) dignitosa della civiltà?