Dal rapporto con don Giussani a Cl, dalle opere alla tentazione del potere. Parla don Julián Carrón, successore di don Giussani alla guida di Cl. “Si vince la paura solo con la familiarità con una Presenza che determina la vita più di qualsiasi altra cosa”. E ancora: “Sogno di vivere sempre più quello che ho incontrato, di rispondere sempre più alla grazia che mi è arrivata nella vita, questa è l’unica cosa che veramente desidero”. Anticipiamo l’intervista che sarà trasmessa oggi su Tv2000 nel programma “Soul”, condotto da Monica Mondo.



Julián Carrón, spagnolo, sacerdote, presidente della Fraternità di Comunione e liberazione o capo di Cl, come dicono. Che differenza fa?
Nessuna. La responsabilità che ho cerco di viverla coincidendo con quel che sono. Non ho altro che vivere, senza altro interesse che non ci sia separazione tra quel che vivo e quel che posso comunicare ad altri, e se c’è qualcosa dell’esperienza che vivo che può essere affascinante per gli altri ne sono felice.



Cos’è Comunione e liberazione?
E’ un’esperienza di fede, il tentativo di mostrare la pertinenza della fede nelle cose quotidiane. Io sono cristiano e sono diventato entusiasta della proposta di don Giussani proprio per questa capacità di abbracciare tutto, di ridestare tutto. Questo per me è appassionante.

Cosa l’ha colpita innanzitutto in don Giussani?
Soprattutto la sua capacità di trascinare con l’uso della ragione l’io dell’uomo. Lui poi viveva la fede con un entusiasmo che lo rendeva unico, con uno sguardo capace di penetrare la vita di chi incontrava, di farlo sentire in un abbraccio. La prima volta che l’ho visto di persona è stato in occasione di un suo viaggio in Spagna ed ero stato invitato a sentirlo. Abbiamo poi preso un caffè insieme, semplicemente, finché siamo diventati amici e dall”85 sono partecipe di quella vita.



Avrebbe mai immaginato di guidare la sua gente, il movimento da lui fondato?
Mai. Neanche quando all’inizio degli anni 90 avevo già una responsabilità in Spagna, in questa amicizia italo-spagnola. Vedevamo un distacco così abissale tra il nostro piccolo gruppo di comunità e quel che c’era qui in Italia, da non dare alcun credito a noi stessi.

Però non c’era devozione per un leader…
No, perché non avevamo la possibilità di frequentarlo assiduamente come altri qui in Italia ed era soprattutto quel che ci arrivava attraverso gli scritti o dalla voce di chi lo incontrava e ci raccontava, o quando veniva a Natale per un periodo in Spagna. Non c’era proprio la possibilità di vivere questa “funzione” cui lei accennava.

Perché è diventato sacerdote? 
Perché da piccolo avevo questo desiderio, che non so spiegare. Poi un giorno mio padre, mentre lo aiutavo a raccogliere le patate, mi chiese se volevo ancora diventare sacerdote, e così sono andato a studiare in seminario, dato che i miei nonni abitavano vicino al seminario di Madrid.

Non è che un ragazzino prende una tale decisione così…
Allora era diverso, era più frequente di adesso. Penso al brivido che avrebbe un genitore, come certi miei amici, se un figlio a dieci anni gli dicesse: “Voglio entrare in seminario”. Ma noi in quell’anno siamo entrati in 150.

E siete rimasti in 150?

Purtroppo no, perché noi abbiamo dovuto attraversare il ’68, le conseguenze del post-Concilio, la crisi, eccetera, e siamo arrivati in sei. Ma questo non è importante. Un seme perché è piccolo non è per questo meno vero”.

Com’è cambiata Cl? Molti dicono che è cambiata con lei, e qualcuno dice che è cambiata troppo.
Non lo so. Io ho solo cercato di vivere per me quel che avevo incontrato in don Giussani. E’ evidente che lui, anche negli ultimi anni in cui non poteva essere presente come agli inizi, aveva lanciato delle sfide che noi dobbiamo proseguire, per esempio il tema della generazione di un soggetto, della personalizzazione della fede. Mi sembra la cosa più urgente, adesso, per ciascuno di noi, che la fede possa essere un’esperienza presente nella vita, che può durare nel tempo e questo dipende dalla verifica che facciamo di quella proposta.

Quel che scandalizza molti è il rapporto di Cl col potere. Lei ha detto con parole nette “avremo dato dei pretesti”, ha espresso “dolore indicibile” e “cocente delusione per ciò che è stato fatto della grazia ricevuta”, confondendo presenza con egemonia.
E’ una tentazione sempre in agguato, perché uno pensa di rispondere a tanti bisogni che la gente si trova addosso e che l’aiuto si debba trovare in un’alleanza col potere. Ma questa tentazione è anche un’occasione bellissima per approfondire il metodo di Dio. Chi avrebbe mai pensato di cambiare il mondo scegliendo un uomo? Per cambiare la realtà Dio avrebbe potuto allearsi con qualsiasi impero dell’antichità, invece ha mandato suo Figlio, sfidando tutto per metterci davanti una presenza. Noi pensiamo che questo metodo così disarmante sia troppo poco, che sia inefficace, e come il popolo di Israele ha cercato alleanze nella storia con vari poteri, così noi abbiamo cercato con lo stesso metodo di portare avanti quel che ci pareva buono per l’uomo. E questo modo può portare a cose inammissibili, se si dimostreranno verificate nella realtà le accuse che sono state mosse.

Pensa di essere stato capito? Dentro Cl e fuori da Cl, perché i pregiudizi restano gli stessi.
Penso che per tanti sia stata una liberazione sentire certe parole. Quanto ai giudizi, è una cosa che ci porteremo addosso per anni, perché i fatti non si cancellano, ma possiamo mostrare che si può ripartire sempre, che la vita è un continuo inizio e questa è la sfida per tutti. Anche nella nostra vita possiamo sbagliare, facciamo continuamente errori, a volte micidiali. La questione è se c’è un luogo dove malgrado tutto si può ripartire sempre.

La provocazione di Papa Francesco sull’autoreferenzialità, all’incontro di questa primavera con Cl, è sembrata un duro rimbrotto.
Non penso che fosse un rimprovero, ma l’esercizio di una paternità nel ricordarci che cosa siamo. Don Giussani, per la responsabilità che ha avuto, negli incontri fatti ha sempre testimoniato che chi ricerca qualcosa di vero si apre alla totalità, è in grado di sorprendere ogni briciola di verità in ogni persona che incontra. Citava spesso un àgraphon dei primi anni del cristianesimo, dove si raccontava di Gesù che aveva incontrato per strada una carcassa di cane, una carogna, e che fermandosi esclamò: “Che bei denti bianchi”, riconoscendo l’unica cosa che aveva di bello. Il Papa ci ha detto che se abbiamo la capacità di valorizzare ogni briciola di verità che incontriamo, possiamo vivere da uomini, abbracciare tutti ed essere in grado di interloquire con tutti.

Eppure sembrava che aveste un rapporto preferenziale con Papa Benedetto XVI. 

Ci siamo sempre sentiti figli. I rapporti e la loro storia cambiano seguendo i temperamenti, anche dei papi. Ma quando Francesco ha citato il nostro carisma come nessun papa ha mai fatto, sentir parlare della misericordia come il luogo in cui uno ritrova se stesso, sono parole che quando le ascoltavamo da don Giussani ci sembravano dirompenti. Questo ci fa sentire una preferenzialità che per me è decisiva. Il resto sono accenti diversi, caratteri diversi, e dipendono da tanti altri fattori.

Per molti, anche di Cl, sembra che il Movimento oggi sia sulla linea di quella “svolta religiosa” su cui don Giussani aveva fatto una battaglia culturale importante. Ovvero la fede come un’esperienza privata che non incide nella realtà per non contaminarsi.
E questa scelta per me resta totalmente sbagliata. Come dice San Paolo, tutto riguarda la fede, “sia dunque che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio”… Giussani citava Romano Guardini, “nell’esperienza di un grande amore tutto diventa avvenimento nel suo ambito”. Ci ha sempre presentato il cristianesimo come un avvenimento che trascina la vita ed è molto più di un innamoramento. Non ci possono essere aspetti della realtà che non c’entrano con la novità cristiana. Dipende poi come questo si declina, si propone e diventa personale. Si può insistere di più sul pubblico, su certi aspetti anche di comunicazione, e lo facciamo sempre, basta leggere gli articoli sui giornali, o insistere di più sulla generazione di un soggetto che possa testimoniare la novità della vita nel posto in cui è. Se un collega di lavoro vede in te come vivi la totalità degli aspetti della vita, con che sguardo, si chiederà perché. Se sei come tutti, arrabbiato come tutti, stanco, solo, senza rapporti con nessuno, anche la tua proposta di fede non può smuovere nulla”.

La Compagnia delle Opere, i politici di Cl, per tutti sono l’equivalente di Cl. Cl ha proprie opere o ci sono “ciellini” che fanno opere secondo la loro responsabilità?
Cl non ha nessun’opera. L’unica opera che ha Cl è una scuola. Il resto è responsabilità dei soggetti che gestiscono le opere. Don Giussani ha sempre avuto questa fiducia nella sua proposta educativa: far crescere persone che abbiano la capacità di rispondere ai bisogni generando opere, in campo sociale, medico, che si tratti di bisogni delle famiglie o di droga o lavoro, handicap o emarginazione. A queste esigenze risponde l’adulto, con i suoi amici. Che poi queste opere si possano mettere insieme per aiutarsi nelle difficoltà, per condividere l’esperienza, è normale, ma niente a che vedere con una sorta di Confindustria o con una guida centrale, come a volte si dice. Io non appartengo a nessun consiglio di amministrazione, non voglio appartenervi mai, non c’entro niente con la gestione delle opere, tutto è affidato alla responsabilità delle persone che lo fanno. Non lo dico per un distacco, ma per la stima della capacità dell’adulto, che non ha bisogno di commissari che garantiscano l’appartenenza a Cl. L’appartenenza a Cl si garantisce per la capacità di seguire la proposta del Movimento.

Le cito una frase: “Siamo a un punto di svolta per la Chiesa, che dalla crisi emergerà più povera… piccola, senza privilegi, più spirituale… dovrà rimettere la fede al centro dell’esperienza”. Così il cardinal Ratzinger nel ’69, alla Radio tedesca. E’ una profezia realistica, che spaventa? 

Spaventa solo chi non ha fede. Da sempre è stato così, Dio ha mostrato la sua diversità proprio così. Per tutti gli imperi antichi la sorte del dio dipendeva dal potere del regno, quando crollava il regno crollava anche il dio. Per il popolo di Israele è stato diverso. Dio ha mandato il suo popolo in esilio, ne ha fatto un “resto”, un piccolo popolo. E’ la modalità con cui il Mistero può far evolvere le cose. Forse essere spogliati di tutto è quel che farà venir fuori tutta la bellezza disarmata della fede.

Davanti all’orrore della storia di oggi, davanti alle persecuzioni feroci di tanti cristiani, cosa vince la paura?
Si vince la paura solo con la familiarità con una Presenza che determina la vita più di qualsiasi altra cosa. Questo è per tanti come una fiamma che entra nelle viscere del reale e lo sostiene dal di dentro. A tanti che non ne fanno esperienza sembra fiction, immaginazione, soltanto un sogno.

Invece la speranza dov’è? Non nell’aldilà, ma qui ed ora?
La speranza è proprio qui, e la presenza del popolo di Israele e del cristianesimo nella storia documenta una speranza nell’al di qua, non solo nell’aldilà, che è sostenuta dal riconoscimento di una presenza che determina la vita più di qualsiasi altra cosa.

Cosa riempie la mancanza del cuore dell’uomo?
Solo una presenza adeguata a quella mancanza. Il problema è che oggi pensiamo che si possa riempirla con qualcos’altro, e così sempre sentiamo più acuta la mancanza.

Penso a tanti ragazzi: la morosa, la moto, la vacanza, lo studio, il lavoro… tutte cose buone, ma sono in fondo piccoli desideri, le domande grandi che muovevano un Leopardi, un Pavese è come se fossero addormentate o forse non ci sono più.
A volte sono addormentate, perché tutto il rumore intorno stordisce. Ma a volte sembrano sparire perché non trovano un luogo in cui porsi. La censura generale, il non poter parlarne con gli amici, il fatto che a livello sociale non si ha più il coraggio di esprimere quelle esigenze, che possono trovare una modalità diversa rispetto a un Leopardi o a Pavese, ma che ci sono, dentro, perché la mancanza di un punto di appoggio, di una certezza del vivere, di una felicità, non può non esistere nel cuore dell’uomo. Se manca, in qualche momento della vita riappare.

Cos’è che non fa perdere la vita vivendo? — magari anche lamentandosi della “mancanza”, cosa piuttosto noiosa, tra l’altro.
Abbiamo pensato che la presenza del Mistero entrato nella storia con Abramo fosse una sorta di spiritualismo, un’aggiunta per i buoni, per quelli che vogliono andare in cielo… non qualcosa di decisivo, ma di cui appunto si può fare a meno senza sentirne la mancanza. Ma se qualcosa è decisivo per vivere, si vede nel momento in cui tutti i piccoli desideri non sono in grado di reggere nel tempo. Cito la parabola del Figliol prodigo: la tentazione di scappare, di fare i cavoli propri, seguendo i propri progetti, c’è in tutti, fin quando ti trovi senza più desiderio di niente. Il problema non è quando la vita va male, ma quando va bene e non basta, è lì l’inizio della domanda. Ma allora che cosa basta? Ricordo un’amica pittrice a Barcellona, che sognava sempre la grande mostra. Quando l’ha fatta e il successo è arrivato, si è messa a piangere, e non era un problema psicologico. Se neppure quel che sognava le bastava, allora? Quando Pavese vinse lo Strega scrisse sul diario: “A Roma, apoteosi. E con questo?”.

Lei cosa sogna?

Sogno di vivere sempre più quello che ho incontrato, di rispondere sempre più alla grazia che mi è arrivata nella vita, questa è l’unica cosa che veramente desidero.

Questo rende la vita felice o più lieta?
La letizia è il cuore, l’inizio, il primo segno di quella felicità che si compirà in un altro tempo, ma è già sperimentabile qui, nel presente, e si vede nella pace con cui si possono vivere le vicende della vita senza crollare.

Il compito della Chiesa qual è? Per molti è fare molte opere buone, sostituendo magari le carenze nei vari campi del vivere.
La Chiesa ha un tesoro molto più grande di tutto quel che può fare, e che fa comunque. La Chiesa può ridestare la speranza della gente e questo la Chiesa deve comunicare, il tesoro che ha, cioè Cristo, che si è fatto carne proprio per riempire il cuore dell’uomo.