Xenia, così è stata paradossalmente denominata l’operazione che ha portato agli arresti domiciliari Domenico “Mimmo” Lucano, sindaco di Riace (Reggio Calabria). Per i greci il termine Xenia distingueva l’umanità dalle barbarie, indicando un reciproco vincolo di riconoscenza e condivisione che si trasmetteva anche tra gli eredi di ospitante ed ospitato.



Cosa ha commesso il sindaco di Riace se non il peccato citato da Tomasi di Lampedusa: “non importa se fai bene o male, il peccato che non ti viene perdonato è quello di fare qualcosa”? Mimmo Lucano ha trasformato Riace in paese dell’accoglienza quasi per caso, quando sulle stesse spiagge di fronte alle quali furono ritrovati i Bronzi, sbarcarono centinaia di profughi curdi. Una vicenda impressa nella storia, al punto che il celebre regista Win Wenders dedicò il cortometraggio Il Volo (2010).



Wenders celebra il personaggio Lucano come artefice di un altro modo possibile di affrontare immigrazione e convivenza; altresì la citazione della rivista americana Fortune che lo scorso anno ha inserito il sindaco di Riace tra le 50 persone più influenti al mondo, l’ha reso oggetto di invidie e gelosie. Nella Calabria in cui il cambiamento può essere solo apparente, se c’è davvero una modalità nuova di affrontare le cose succede che qualcuno, in un modo o nell’altro, te la faccia pagare.

Nel merito dell’inchiesta, le accuse nei confronti del sindaco sono già state molto ridimensionate nel passaggio tra Pm e Gip. Lucano, da quanto si legge nella sostanza dell’ordinanza del Gip, non si è arricchito sulle spalle dei migranti e non ha fatto arricchire nessuno di quelli che dicono “con gli immigrati si guadagna più che con la droga”. Forse è anche questo che lo fa essere inviso a certi ambienti, mafiosi e non?

Le accuse riconosciute degne della misura cautelare da parte della magistratura sono riferite a due ipotesi di reato: aver suggerito ad una ragazza nigeriana di trovare un marito calabrese, di comodo, ed aver probabilmente celebrato lui stesso il matrimonio, per evitare di essere rimpatriata o di diventare clandestina, dopo che per tre volte non le era stato riconosciuto lo status di rifugiata.

I sostenitori di Lucano parlano di disobbedienza civile, altri di machiavellico fine che giustifica i mezzi. Ma sulle modalità di riconoscimento dello status di rifugiato, sulle ombre nei canali più efficienti (e costosi) per ottenerlo, sarebbe opportuno che chi di competenza inizi presto a fare chiarezza.

Lucano ha commesso un reato nel fare il vecchio e mai scomparso mestiere del ruffiano e consigliare la strada del matrimonio? Può darsi. Ma quanti matrimoni di comodo si sono sempre celebrati e si celebrano pur nella mutevolezza della società?

L’altra accusa è quella di aver affidato direttamente a due cooperative, in cui lavorano riacesi e migranti, la raccolta differenziata dei rifiuti; gli operatori di queste coop usano come mezzo di trasporto asini nei vicoli del borgo calabrese in cui gli automezzi non passano. Quindi non si tratta certo di uno dei tanti appalti miliardari esistenti nell’ambiguo, e foriero di interessi, settore della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti in tutta Italia.

Mimmo Lucano è in fondo come un uomo semplice, che è riuscito però a creare una comunità basata su sentimenti di rispetto, solidarietà, collaborazione tra decine di etnie diverse, anche provenienti da luoghi del mondo in cui i potenti si combattono tra loro. Avrà forse sbagliato nell’essere troppo spontaneo e nel guardare alla sostanza dei problemi tralasciando talvolta la forma, che di solito nella gestione pubblica è fondamentale — purtroppo — più dei contenuti reali. Ma la misura cautelare applicata nei suoi confronti appare smisurata, almeno per quanto si legge fino ad oggi dai comunicati stampa della stessa Procura di Locri.

In molti poi si chiedono se in un territorio come la Locride, definito come la capitale mondiale della ‘ndrangheta, l’emergenza giudiziaria sia quella di indagare le attività di ospitalità del comune di Riace e di intercettare le conversazioni del suo sindaco. Sproporzioni che agli occhi di chi non è coinvolto come parte o controparte o di chi non ha un interesse di pura strumentalizzazione politica, appaiono evidenti.

L’evidenza, denunciata da poche voci fuori dal coro, è che nella vituperata Calabria ogni rottura del normale diventa reato; ciò ha portato, negli anni, a libertà e democrazia conculcate ed oggi ad una criminalizzazione delle vere e rare politiche di solidarietà.

Ciò che può diventare esempio di una Calabria positiva, risolutiva e creativa deve essere distrutto perché, contrariamente a quanto sosteneva Fabrizio De André, dal letame non si vuol far nascere fiori.