Giunti nel punto più lontano dell’esplorazione, “tagliarono un tralcio con un grappolo d’uva, che portarono in due con una stanga, presero anche melograni e fichi” (Nm 13,23). È uno dei passi più belli della Scrittura: prima che il popolo d’Israele entri nella Terra Promessa, Mosè manda degli uomini ad esplorarla. La paura serpeggia, c’è trepidazione, l’ansia è tanta: “Siate coraggiosi e portate frutti del paese” dice Mosè agli esploratori. Vanno, esplorano, ritornano.
Andare è un verbo pedonale: con qualunque mezzo s’intraprenda un viaggio, il pezzo più difficile è il primo passo, quello per scendere dal letto. Esplorare è un verbo a punto croce: unendo tutti i dettagli, tessere una tela. Ritornare, poi, è verbo di racconto: narrare ciò che è stato visto, è sedersi per raccontarsi la vita.
Questo hanno fatto gli esploratori di Mosè: non tacciono la fatica e il rischio del viaggio — “Il popolo che abita il paese è potente, le città sono fortificate e immense” — ma portano a casa l’uva, i fichi, il melograno. Ch’è come dire: il rischio è alto, ma la percentuale di dolcezza nascosta è gigante. Lo dicono leccandosi le labbra.
I condottieri sono Mosè e Aronne: gli esploratori non possono ambire alla loro sedia. Manco appartengono alla casta dei sacerdoti, in tutte le salse. Sono esploratori, cioè avventurieri, più minatori che orafi, gente delle fondamenta più che arredatori. Badili, vanga, tuta, calcinacci: poi arriveranno le arredatrici in tacchi a spillo, l’esploratore indossa le scarpe antinfortunistica. Il suo è lavoro di manovalanza: “Dobbiamo svangare, gente!”. Tengono la sfida di aprire strade nel deserto della paura, dovranno fidarsi del loro naso: al loro fiuto è appeso il destino del popolo intero.
La storia della salvezza cristiana poggia nella punta del naso. Hanno Dio in punta del naso. “La Chiesa desidera mettersi in ascolto della vostra voce, della vostra sensibilità e della vostra fede — scrive il Papa nella Lettera ai giovani —; perfino dei vostri dubbi e delle critiche. Fate sentire il vostro grido, lasciatelo risuonare nelle comunità e fatelo giungere ai pastori”. Parole che, lo crediamo, faranno sentire i rintocchi ai padri sinodali che oggi (3-28 ottobre) apriranno l’Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi, per riflettere su un tema che racchiude un marasma di prospettive: “I giovani, la fede, il discernimento vocazionale”. Mica poco, è tutto: lo si creda oppure no.
Sarà una sfida ardua, ai limiti dell’impossibile, di quelle che piacciono tanto a Francesco, il Papa barchetta-da-pesca con la forza di un cacciatorpediniere. Il rischio è altissimo: oggi, nella Chiesa, il verbo ufficiale è “mantenere”. Un verbo che mal s’addice alla giovinezza, che ne storpia l’identità, offendendola: “Qual è il posto dei giovani nella Chiesa?” è la minestra riscaldata di migliaia di riunioni protrattesi fino a tarda notte. E altrettante per capire come “convocare” i giovani, sopratutto i lontani. “Mantenere” è verbo-manutenzione, “convocare” è verbo di altezzosità: “Venite a casa nostra. C’è spazio per tutti”. Certo, piuttosto di niente è meglio piuttosto.
Più che il convocare, però, varrebbe meglio il raccogliere: c’è gente che di entrare a casa nostra proprio non gl’importa nulla. Per riaccendere in loro il gusto di casa, forse val meglio l’andare per strada a raccogliere: i cocci, i frammenti, i detriti di storie che nulla hanno a che fare con noi. Là, nel bailamme controverso della vita feriale, stanno fior di campioni: ci fanno paura i campioni? Ad una certa Chiesa, di sicuro: mai accetterebbero, gli esploratori, di fare la fine dei manutentori. Esplorare non è mestiere, è identità: vocazione. Seppure lungi dall’aver incontrato Cristo, hanno voglia d’eterno cucita addosso. Il campetto del suo oratorio non basta più: suona loro come la versione riaggiornata dei vecchi recinti. Hanno sete d’Eternità. Per questo ritornano in parrocchia con uva, fichi e melograni: per mostrare che, sotto la cenere, ci sono braci ancora arrossate.
Il divano è comodo. In strada, però, ci sono uva, fichi e melograni per tutti.