Quando nel marzo del 2000 Giovanni Paolo II si mise in ginocchio per chiedere perdono per i peccati della Chiesa, si sollevarono non poche voci critiche verso un gesto che – agli occhi dei commentatori più zelanti – appariva come un’implicita ammissione di sconfitta da parte del Popolo di Dio in merito all’azione stessa del Divino nel Suo Corpo mistico: come poteva, e come può, infatti la Chiesa, la tutta santa, essere peccatrice? Come può commettere degli errori? Una simile obiezione, per altro pienamente comprensibile agli occhi di chi riconosce nella Chiesa la “compagnia di Dio all’uomo”, è però viziata di un errore teologico di fondo, quello di considerare la salvezza portata da Cristo nel tempo come un pacchetto all inclusive, finito in se stesso, priva di quella dimensione storica che ben il Vangelo riassume nell’immagine del lievito o del seme. La presenza di Cristo, la Sua Misericordia – proprio come il seme o il lievito – inizia nel tempo qualcosa di nuovo, inizia nel tempo a salvare e a trasformare l’umano, ma questa trasformazione non avviene in modo lineare e progressivo, bensì circolare e concentrico: più passa il tempo più l’umano, se aderisce a Cristo, si libera dal fardello del peccato, si allontana da Satana e sprigiona, inesorabilmente, la sua forza, le sue più remote potenzialità.
Le scuse avanzate domenica da Papa Francesco ai giovani, al termine del Sinodo a loro dedicato, si inscrivono dentro questo straordinario cammino della Chiesa: essa oggi giunge a comprendere che l’errore più grande, il peccato più grande di cui Ella si è umanamente macchiata, è stato quello di tradire la giovinezza. Dinnanzi alla gioventù la Chiesa non si è posta come Colei che ha ricevuto talmente tanto in termini di amore e di verità da poter guardare dentro ogni amore impazzito e ogni verità pasticciata: la Chiesa nei confronti della giovinezza si è posta come Colei che già sa, che già ha capito, che deve solo educare e arginare i bollenti spiriti di una stagione dell’esistenza condannata ben presto ad essere superata.
E’ stata per questa ultima avversione che la Chiesa cattolica si è trovata nel tempo a combattere contro la libertà, contro il piacere, contro la dimensione emotiva e affettiva dell’individuo: tanta della confusione ecclesiale su molti dei temi oggi oggetto di dibattito nella società proviene da un’ultima lontananza della Chiesa dalla forza e dall’irruenza della giovinezza. I giovani sono stati stigmatizzati come ribelli, trasgressivi, come scatole da riempire di buone intenzioni e non come un tesoro prezioso da ascoltare. Perdonateci, ha detto Bergoglio, se fino ad oggi la Chiesa vi ha considerato di più come orecchie da riempire che cuori da accogliere: vi abbiamo riempito le orecchie, ma non abbiamo saputo aprirvi il cuore.
Dunque che cos’è che può incontrare il cuore dei giovani? Che cos’è che può incontrare la giovinezza, che non è un’età anagrafica, ma che è quel desiderio del tutto che si fa beffa di regole e confini da quanto è proiettato verso l’urgenza del suo compimento? Quello che può incontrare il cuore dei giovani, ha ribadito il Papa, non è una teoria, ma una Presenza, un incontro vivo con qualcosa che trascini tutto l’io, la sua affezione e la sua ragione. Forse oggi di più la sua affezione che la sua stessa ragione, poiché questo è il tempo in cui le cose si imparano anzitutto con il cuore.
Vengono alla mente le parole con cui l’allora cardinale Ratzinger si domandava se ci fosse ancora speranza per la fede cristiana sulla terra. Egli rispondeva prontamente di sì. Perché la fede non risponde ad un’astratta esigenza di capire, ma a quell’angolo remoto del cuore che vuole la vita e desidera giorni felici. E’ in qualcosa che è in me e in te che noi oggi possiamo riporre la nostra speranza, non in qualcosa di appena esterno, in qualcosa che dall’esterno possa in qualche modo sollecitare certe conclusioni, certe scelte morali, certi pensieri o ragionamenti. Ma qualcosa che è in me e in te, al punto tale che la vita – tutta la vita – non è altro che un ascolto, un riascolto, di quello che già è accaduto perché, dentro ciò che ci è accaduto, ciascuno possa scorgere la mano di un Padre, quella dolce Presenza che non solo è in grado di promettere tutto, ma è bensì in grado di mantenere le promesse che fa.
Tutta la partita odierna, la partita che si gioca dalla fine di questo Sinodo in poi, è dunque questa: se la Chiesa voglia ribadire le Sue certezze o se la Chiesa voglia offrire al cuore e alla libertà dell’uomo una strada per riconquistarle, per farle proprie, una strada che parli a qualcosa che è già dentro di noi e che aspetta solo di essere ridestato. Quel dono dello Spirito che, non a caso, ci è stato consegnato nel cuore nell’unico momento decisivo della nostra esistenza, quell’infinitesimale istante in cui ciascuno di noi è stato battezzato, afferrato per sempre da un Amore che è definitivo giudizio su tutto, definitivo motore di ogni domanda che rende grande la nostra vita, che rende piena di senso la nostra giovinezza.