Gentile direttore,
leggiamo oggi pomeriggio (ieri, ndr) dell’ennesima insegnante colpita a scuola in quello che pare un agguato premeditato.
Potremmo stare a disquisire per ore sulle dinamiche di gruppo e sull’adolescenza, cercando ancora una volta di scusare i ragazzi oppure il “sistema” che non funziona, ma quel che mi sembra sia ora di guardare fino in fondo è che spesso io e i miei colleghi insegnanti ci troviamo ad essere l’ultimo baluardo di fermezza in una società che non è più capace di dire di no ai propri figli.
Perché, inutile negarlo, dire di no costringe ad una fatica immensa.
Dire di no vuol dire iniziare una lunga guerra senza esclusioni di colpi, una battaglia che per essere sostenuta ha bisogno di adulti pieni di ragioni.
Perché ne vale la pena? Dove si trova la forza per fare da argine ad un torrente in piena che sembra travolgere tutto ciò che incontra? Perché sobbarcarsi l’onere di dire quei no che talvolta nemmeno la famiglia ha più la forza di pronunciare?
Spesso siamo noi i primi a non saper più rispondere a queste domande, perché ci siamo assuefatti ad una leggerezza e superficialità in cui i bulletti-lancia-sedie sguazzano: non sono mai messi all’angolo; non viene loro mai chiesto di essere diversi da come sono, di scontrarsi per davvero con qualcuno che (dentro uno sguardo di bene e di speranza e non di esclusione o vendetta) li sfidi a prendersi fino in fondo la responsabilità dei loro gesti, a guardare ciò che il loro cuore veramente desidera.
Affinché i ragazzi tornino a desiderare cose grandi, e non vigliaccate che poi spesso condividono sui social, credo sia sempre più necessario che trovino sulla loro strada qualcuno con lo sguardo puntato alle stelle; hanno bisogno di scoprire che non abbiamo paura di loro e delle loro piccinerie da bambini violenti e capricciosi e che siamo disposti ad accompagnarli ad assumersi tutte le proprie responsabilità e a pagarne le conseguenze.
Non esiste una strada differente se vogliamo che diventino uomini: devono fare i conti con la realtà, con i gesti che compiono, con la “soddisfazione” che ne ricavano, con gli effetti che le loro azioni hanno. Bisogna tornare a chiedere loro di giudicare, di dare un valore a ciò che accade attraverso le loro mani, le loro parole o le loro mancate prese di posizione contro il male degli altri.
Sta innanzitutto a noi riscoprire che la fermezza a cui siamo chiamati ha dentro questa promessa di farli diventare uomini veri. E dunque vale tutta la pena che ci costa.