Osman Matammud, giovane somalo 23enne arrestato a Milano dopo essere stato riconosciuto da alcune sue vittime in Libia, il 10 ottobre del 2017 è stato condannato alla pena dell’ergastolo e all’isolamento diurno di 3 anni. Una condanna pesantissima ma giustificata dalle orrende torture seguite da efferati omicidi a scapito di decine di persone nel centro di raccolta per immigrati che gestiva a Tripoli. Ad Un giorno in Pretura, si ripercorrerà l’incredibile vicenda con protagonista un giovane a carico del quale, come emerge dalle motivazioni della sentenza di condanna, ci sarebbero ben 13 omicidi e non quattro come inizialmente erano stati definiti dal pm Marcello Tatangelo. Durante il dibattimento che si è svolto in Corte d’Assise a Milano, infatti, si arrivò ad un numero di vittime di gran lunga maggiore. Per i giudici, Osman agì con il solo intento di fare più male possibile ai suoi prigionieri nel campo libico di Bani Walid. Per gli stessi giudici, la morte dei migranti per il giovane libico non rappresentava “alcun svantaggio, e anzi veniva da lui utilizzata come monito e pressione sugli altri reclusi”. Il tutto in attesa di poter ottenere il denaro utile per pagare il barcone che li avrebbe portati poi in Europa.
OSMAN MATAMMUD, L’ARRESTO A MILANO
Il 23enne somalo Osman Matammud, conosciuto dai suoi connazionali con il nome di “Ismail”, fu arrestato il 23 settembre del 2016 a Milano. Lo stesso si era ritrovato nel centro di accoglienza di via Sammartini accanto alla Stazione Centrale del capoluogo lombardo proprio con alcune delle vittime delle sue torture che lo avevano riconosciuto e fatto arrestare. Con l’aiuto di alcuni connazionali, era stato circondato e infine consegnato alla polizia locale prontamente giunta sul posto. Solo scavando nel suo torbido passato erano emersi i numerosi episodi di violenza, ai quali si unirono le accuse choc delle stesse vittime. Subito dopo l’arresto, Osman aveva cercato di difendersi respingendo le accuse ed anzi puntando il dito contro le stesse vittime: “Hanno inventato tutto per una guerra tra clan”, aveva spiegato, nel vano tentativo di giustificarsi. Ed anche dopo la sua condanna all’ergastolo, Ismail ha continuato a ribadire la sua innocenza. “Spero nel cielo, sono innocente, non ho commesso nessun reato”, aveva detto all’avvocato Gianni Rossi. Lo stesso, come riporta MilanoToday, aveva fatto sapere che avrebbe presentato ricorso in Appello contro la sentenza di primo grado.
LE TESTIMONIANZE CONTRO OSMAN MATAMMUD
Nel corso del processo al giovane somalo Osman Matammud, erano emerse le incredibili testimonianze di coloro che hanno subito le atroci sevizie mentre si trovavano nel campo profughi di Bani Walid, in Libia. Già dalla prima udienza, come rammenta MilanoToday, una delle sue numerose vittime aveva raccontato: “Ci legava i piedi con il fil di ferro e ci teneva a testa in giù. E se urlavi, ti metteva la sabbia in bocca”. Sempre secondo il teste, uno di coloro che lo avevano riconosciuto a Milano permettendo il suo arresto, Ismail era “armato di fucili, coltelli, pistola e bastoni” con i quali picchiava “chi non aveva ancora pagato” per prendere il barcone che lo avrebbe condotto in Europa. Dai vari racconti era emerso il profilo di un vero e proprio seviziatore seriale. Anche per questo, sempre dalle testimonianze, era emersa la presenza di una vera e propria stanza delle torture allestita presso il campo di Bani Walid. Qui, a detta della vittima, “mi legava, mi sottoponeva a scariche elettriche finché non svenivo. Quando aveva voglia iniziava a picchiarmi finché non si stancava”.
VIOLENZE, STUPRI E MINACCE
Il trattamento che Osman Matammud avrebbe riservato alle sue vittime nel campo libico di Bani Whalid, a 150 km da Tripoli, era differente tra uomini e donne. Mentre i primi venivano brutalmente picchiati e bastonati (oltre che umiliati), le ragazze venivano invece violentate e stuprate. Per i pm milanesi lo stesso trattamento era riservato anche alle minorenni. “Guardava le ragazze che tremavano poi, si prendeva quelle che gli piacevano”, aveva spiegato sempre il testimone durante il processo a carico del torturatore somalo. Ma Ismail fece molto di più poichè chiamava anche le famiglie delle sue vittime minacciandole di uccidere i propri figli se solo non avessero pagato. Ed al telefono faceva sentire le loro urla di dolore. A tutti aveva promesso di portarli in Germania, salvo poi ritrovarsi in Italia, a Milano. E qui molti di loro avevano poi trovato accoglienza nell’hub di via Sammartini.