Guardare le notizie da un altro punto di vista è un esercizio raro, ma salutare. L’Istat in questi giorni ha mostrato che un alto numero di italiani (sembra 4 milioni) rinuncia alle cure mediche per motivi economici e un’altra buona fetta, circa 2 milioni, per la lungaggine delle liste d’attesa.
La prima risposta al problema viene spontanea: razionalizziamo le liste d’attesa, assumiamo più medici e tecnici, e soprattutto attuiamo delle politiche sociali contro la povertà. Bene. Nulla da eccepire.
Ma guardiamo dall’interno la notizia, come fossimo un endoscopio dentro un addome, per restare in tema, e vedremo che buona parte delle cure cui si rinuncia non sono per niente necessarie: come ben sa chi legge la letteratura scientifica, gli esami clinici, i ricoveri richiesti, i farmaci prescritti sono in eccesso, per motivi di medicina difensivistica, per accattivarsi il paziente che non vuole uscire dall’ambulatorio a mani vuote o peggio ancora, con la conferma di ciò che già su Google aveva “scoperto di avere”. E questo eccesso di farmaci, ricoveri, prescrizioni toglie aria e spazio ai malati veri e ai poveri veri.
Qualcuno ha fatto in qualche regione italiana uno studio reale dell’appropriatezza delle cure? Non chiedendolo ai medici come chiedessero all’oste se il suo vino è buono, non mandando ispettori quando si nota un fenomeno critico episodico, ma su parametri puntuali e seri, andando a misurare l’uso di antibiotici dati in casi di raffreddore, le risonanze e le Tac fatte al di fuori delle linee-guida internazionali, i ricoveri fatti per l’insistenza immotivata del paziente.
Una razionalizzazione della sanità parte da qui, anzi parte da un passo prima: la motivazione del medico. Purtroppo, come recitava un editoriale su una rivista medica qualche anno fa, “un uomo con un martello vede chiodi dappertutto”, per significare che l’eccesso di facilità e di strumenti medici porta a un loro sovra-impiego, della serie: “già che ci siamo, facciamo anche…”. Ecco, il “già che ci siamo” tanto caro sia a medici che pazienti dovrebbe sparire dal vocabolario medico, perché porta a eccessi di esami e farmaci, mentre entrambi dovrebbero essere mirati e individualizzati.
Nel 1987 la Rivista dell’Associazione dei medici canadesi coniò il termine “Ulysses Syndrome” per quel tipo di disservizio che nasceva dall’eccesso di prescrizioni, il quale faceva nascere sempre altri esami e prescrizioni inutili (per via dei frequenti falsi positivi o risultati border-line) e così via, trascinando il paziente in un percorso clinico inutile che, come ad Ulisse, gli faceva fare il giro dei sette mari.
Ma non si uscirà da questi eccessi se non si uscirà da una medicina aziendalizzata, laddove l’aziendalizzazione non è vissuta nell’accezione positiva di collaborazione e parsimonia, ma nell’accezione di burocratizzazione e spreco. Detto ciò, le politiche sociali sono comunque indispensabili: la sanità italiana con tutti i suoi limiti è forse la migliore al mondo, per la preparazione dei suoi operatori e per l’accesso universale che garantisce: si impegni a essere meno azienda fredda e più compagna di percorso della gente; ma non le si taglino risorse, non si lascino contratti non rinnovati da anni e non si blocchi il turnover del personale.
La bilancia deve esser ben equilibrata: gli operatori sanitari si comportino con scienza e coscienza e chi governa si impegni per misurare le effettive necessità della popolazione e garantirle: che delle persone debbano fare mesi di attesa per un esame al seno o per una Tac al cervello non è tollerabile; così come che qualcuno rinunci alle spese odontoiatriche perché in quel campo il servizio pubblico deve diventare più capillare e fruibile.
Il verbo curare significa aver cura: ecco, oggi bisogna che ci si prenda cura di chi cura, premiando dove si deve premiare e limando dove si deve limare.