La famiglia Radford ha 21 figli. Respirate a fondo, e mettetevi a contare, immaginateveli tutti in fila. Nessun parto bi o trigemellare. Semplicemente, mamma Sue ha avuto la prima bebè a 14 anni, un po’ troppo presto, e il papà ne aveva 17, un ragazzetto. Ma l’hanno tenuta, ed è stata la primogenita di una stirpe quasi come le stelle del cielo promesse ad Abramo.



Dato che oggi Sue di anni ne ha 43, in 29 anni ha avuto gli altri 20, e dato che una gravidanza dura 9 mesi, diciamo che si è presa qualche piccolo intervallo, giusto il tempo per far ripartire l’ovulazione dopo il parto. Padre e madre, naturalmente già nonni, e più di una volta, hanno solo poco più di 40 anni, l’età in cui di solito si parla di primipare attempate, mentre gli uomini cominciano a capire che sono grandi, e pensano di poter decidere di essere padri. Da poco è nata Bonnie Raye, che giocherà coi bimbi del suo fratello maggiore, Chris, di cui lei sarà zia, secondo il codice parentale. E sarà prozia dei loro figli, magari appena adolescente.



Pare che patriarca e matriarca abbiano ora deciso di smettere, dall’intervista che hanno dato a The Sun, ritenendosi grati e soddisfatti. Nessun patema, nessun rimpianto, ogni parto è filato liscio liscio, una mezz’oretta di travaglio. Via a casa a badare ai più piccoli. Si possono ritirare i vetusti premaman, o passare alle figlie a loro volta prossime mamme.

È chiaro che si tratta di un’eccezione, e infatti la famiglia Radford ha battuto ogni record, sicuramente europeo. “In paesi civili”, si dice di solito, dove i figli si calcolano a mezzi e quarti, se si guardano le percentuali di natalità.



Bisognerebbe fare un film, o un reality finalmente di qualche interesse, per capire la loro storia: due ragazzini che s’innamorano, fanno all’amore, e non smettono più, di far all’amore e di procreare. Come a riempire l’amore mancato nella loro infanzia, dato che sono entrambi stati adottati dopo l’abbandono da parte dei genitori. Bisognerebbe capire come se la cavano, chi aiuta chi, chi prepara la cena e che cena, come sono sistemate le stanze. Hanno una panetteria, non un’azienda di famiglia, e sicuramente il welfare inglese li sostiene, non si sa se con orgoglio o imbarazzo. Grazie a Dio sono nati tutti sani e ben disposti, perché si sa che in Gran Bretagna vanno per le spicce con i casi gravi, e il controllo delle nascite sarebbe stato più accorto.

La famiglia Radford non è un modello, perché bisogna parlare di paternità e maternità responsabili, e non credo che sia responsabile fare figli come conigli, e sono parole che spontaneamente, come fa di solito, ha detto anche il Papa. Però… se sono in salute… però, se riescono a mantenerli all’onor del mondo… Chi siamo noi per giudicare?

Sicuramente la famiglia Radford è uno schiaffo all’idea dominante che i figli si programmano, si misurano, si progettano, e tutti quei verbi che sanno di analisi matematica e poco con la gratuità e la generosità, ancor meno con la speranza e la fiducia. La famiglia Radford è una provocazione, ci viene il dubbio che sia inventata e ci viene naturale compiangerla. Poveretti, degli sconsiderati. Solo che la stessa reazione la applichiamo a chi di figli ne ha più di due, e magari non riesce a mandarli tutti alla Bocconi, non riesce a far loro imparare il violino e non li porta a Orlando entro i dieci anni.

Poi, sorridendo, ci viene da pensare, chissà perché, a Di Maio, alla sua proposta di regalare un terreno da coltivare al terzo nato di ogni coppia. Se 21 diviso tre fa sette, i Radford possono chiudere la panetteria e diventare possidenti terrieri…