L’incontro tra una cultura radicata nel senso del dovere e i meccanismi del sistema capitalista ha portato alla nascita e alla fortuna del Giappone contemporaneo. Ridurre un Paese a una struttura economica, e pensare di comprenderlo, è sempre un’operazione azzardata. Tuttavia impressiona vedere realizzate nel Giappone odierno molte delle profezie con cui Pasolini accompagnava l’affermarsi della società dei consumi e il suo sfrenato individualismo: il mito della riuscita e della performance perfetta trasforma la promessa di benessere della società occidentale in una pretesa che è la causa principale, secondo il ministero degli Interni nipponico, del record di suicidi tra gli under 18, al top dal 1986.
Il suicidio non è neppure il segnale più preoccupante: 500mila hikikomori — persone che si chiudono in casa e si ritirano dalla vita — raccontano di un’alienazione radicale che attraversa trasversalmente vecchi e giovani, lasciando tutti più soli e più vuoti.
Si comprendono così notizie di cronaca che a volte si guardano di sfuggita, derubricandole a mero folklore, come il matrimonio di un trentacinquenne con l’ologramma di una popstar che non esiste, ma che è frutto di un sintetizzatore vocale, o l’afflusso straordinario di pellegrini a un santuario dove si prega per avere dei bei capelli. Tenere insieme tutti questi fattori sembra difficile, finché si tenta di leggerli sociologicamente, come se dovessero rivelarci qualcosa di lontano o di esotico, mentre invece si dipanano con una straordinaria naturalezza nel momento in cui ci guardiamo in casa, portando l’attenzione ai tanti giovani che restano letteralmente incastrati negli ingranaggi che li accolgono nel mondo del lavoro.
Che cosa porta al suicidio, alla stranezza, all’isolamento? La risposta è quasi banale, eppure non scontata: ogniqualvolta avvertiamo la mancanza di uno spazio per noi, di uno spazio dove poter dire “Io”, con tutta l’originalità e l’irriducibilità che si avverte quando affermiamo quello che siamo, tutto diventa ricatto, misura, e il valore della nostra vita è appaltato al successo, al consenso del capo, alla riuscita, al fatto di essere adeguati allo standard che ci viene proposto.
È il grido che spunta da uno degli ultimi singoli degli Onerepublic, “Connection”, quando il cantante della band si domanda: “Se ci sono tante persone qui, allora perché sono così solo?”. L’assenza di un momento di tempo dove far spazio a se stessi, al proprio cuore, genera solitudine, genera distanza, genera disperazione. In un tempo di connessioni finiamo per essere sconnessi da noi stessi e da chi ci sta accanto, dotati della dignità che potrebbe avere un bullone, tesi di non essere presto sostituiti da qualcun altro o — cosa molto più plausibile — da un’intelligenza artificiale che nel giro di dieci anni saprà fare molte delle cose che sappiamo fare noi, ma molto meglio di noi.
Il Giappone, e con esso l’ossatura del mondo capitalista, si trova a un bivio: o lasciarsi divorare dalle richieste sempre più pressanti del profitto, delegando a una politica violenta la conquista di una fetta di felicità, o ritrovare nel proprio desiderio di bellezza e di verità un’altra misura del profitto e del benessere. Che nessuna macchina potrà sostituire, che nessun capo potrà addomesticare, ma che soprattutto nessuna solitudine potrà intaccare. Perché non c’è niente che riempia più la giornata della compagnia di una domanda. Alla faccia dell’ologramma.