Dimostrami che ci sei, che hai diritto di esistere, che meriti il mio applauso, la mia amicizia.

Tra il centro di Milano e Parabiago ci sono circa ventisette chilometri, trentacinque minuti. Nell’opinione comune tra un ragazzo egiziano di 22 anni e un ragazzino milanese di 15 c’è molta più distanza. La cronaca, e il suo imperscrutabile fato, ha invece deciso di accomunarli nello stesso giorno. L’uno arrestato in quanto “lupo solitario” dell’Isis, che si diceva pronto “a fare la guerra”, l’altro travolto da un treno alle sette di sera, al termine di una tragica gara di coraggio con un tredicenne, in un crescendo di sfide a chi dei due avrebbe saputo stendersi su un binario in attesa di un convoglio sempre più vicino. I sociologi ci direbbero che c’è sfrontatezza in questi due fatti, voglia di emergere, delirio di onnipotenza. Altri bravi esperti ci parlerebbero di noia, di vuoto, di baratro del nulla che pare avvolgere il destino di un’intera generazione.



Eppure tutte queste spiegazioni non bastano a raccontare il perché si decida di partire, di mettersi in proprio, e di fare la guerra. O il perché si trovi l’ardire di presumere che nulla di male ci possa accadere dal momento che stiamo insieme, pronti ad accostare la morte per farsi un selfie con lei a beneficio degli amici. C’è qualcosa di più recondito, di più remoto, in tutto questo, qualcosa che merita di essere guardato e che prende le mosse proprio dal contesto positivo che si trova a vivere chi cresce da noi in Occidente: tante cose, amici, genitori, ma — soprattutto — tante attenzioni.



Fin da piccoli ci fanno l’applauso se riusciamo a fare un ruttino, ci coccolano, ci regalano cose, ci vezzeggiano e ci dicono “bravo”, “bello”, senza che, in fondo, si sia fatto nulla di eclatante e di speciale: l’applauso e il consenso di chi ci ama sono la musica della nostra infanzia. Poi arriva la scuola, arrivano i voti, i confronti con gli altri, le incomprensioni con chi ci vuole bene. Ed è lì che inizia ad insorgere uno strano sospetto: ma sarò davvero meritevole di questi applausi? Davvero qualcuno apprezzerà ancora quello che faccio? Perché nessuno si complimenta più con me? Che cosa ho fatto di male? Qual è la verità? Nel turbine di queste domande l’unica droga che ci diventa necessaria è qualcosa — o qualcuno — che giustifichi la nostra presenza. Improvvisamente ogni atto e ogni gesto sembrano essere stati fatti apposta per darci un’occasione di dimostrare che non si erano sbagliati, che facevano bene a tifare per noi.



Ma niente basta a placare la voce insistente della mente, che ci incalza e ci sfida: “Dimostrami che ci sei, che hai diritto di esistere, che meriti il mio applauso, la mia amicizia”. È per questo che si parte per la guerra santa o per il binario di un treno: affamati di bene, desiderosi di ottenere l’autorizzazione a vivere. Poco importa se tutto questo avrà un prezzo, se ci porterà alla morte: tutto vale la possibilità di risentire quell’applauso, quella festa, quella gioia che ha accompagnato l’inizio del nostro cammino umano.

In una sera di novembre tra un ragazzo egiziano e un ragazzino di Milano non ci sono ventisette chilometri, trentacinque minuti: c’è solo lo spazio di un respiro e di un grido che annuncia al mondo il sorgere di una nuova fratellanza, quella di chi ha avuto così tanto immeritato successo che poi passa il resto della vita a cercare di meritarselo. Costi quel che costi.