Quanto vale una vita umana e in che misura un medico è sempre obbligato a fare di tutto per salvarla, prendendosene cura anche in condizioni estreme, mettendo da parte opinioni personali, valutazioni di qualsiasi tipo, ignorando tutto quello che potrebbe creare un ostacolo tra lui e chi bussa alla sua porta chiedendo aiuto. Ovviamente si tratta di un falso problema, perché non c’è una alternativa a questa domanda, che ammette una e una sola risposta. Il medico è obbligato a fare di tutto, sempre e comunque, anche mettendo a rischio la sua stessa vita. E’ il vero carisma del medico, quello che ne garantisce l’autorevolezza e rende riconoscibile la sua condotta dovunque si trovi. E’ dai tempi di Ippocrate che il medico si è conquistato la stima e la gratitudine della gente per la sua competenza e la sua disponibilità; per quel suo non negarsi mai ai bisogni espressi dall’altro.
E quindi la risposta al quesito apparso ieri sui social media e rimbalzato oggi su diversi giornali è tanto semplice da non presentare alternative e da non ammettere deroghe: se una donna, che ha già abortito e ha già perso il suo bambino, arriva ad un pronto soccorso in condizioni gravissime, il medico di guardia, chiunque sia, per obiettore che sia, interviene a salvare la sua vita dal rischio emorragia in atto.
Non può esimersi dal mettersi in gioco professionalmente per le stesse identiche ragioni che lo hanno spinto a diventare obiettore. La vita umana non ha prezzo. Non ha prezzo la vita del bambino e non ha prezzo la vita della madre. Qui non c’entra neppure l’aborto terapeutico, dal momento che l’aborto c’era già stato e il bambino non c’era più. Quel che c’era davvero era una donna la cui vita versava in condizioni gravissime. In quel momento non importava neppure sapere se aveva abortito involontariamente o se si era trattato di un aborto procurato; in questo caso al medico non interessava neppure sapere chi aveva procurato quell’aborto, senza riuscire a completarlo in modo corretto.
Tutte domande buone per dopo, una volta risolta l’emergenza; e probabilmente non erano neppure domande che il medico dovesse porsi in prima persona, lasciando ad altri le indagini necessarie. Lì c’entrava solo il dramma di una vita umana in cerca di aiuto, dopo aver appena perso il suo bambino e quindi in condizioni emotive di grande fragilità. Impossibile da accettare che un medico le abbia potuto negare il suo aiuto e che sia toccato ad un’ostetrica chiamare un altro medico, che stava a casa, senza nessun obbligo di reperibilità, per sollecitarne la presenza nell’emergenza.
Dalla cronaca sembra che questo secondo medico inizialmente abbia cercato di sottrarsi alla chiamata ricordando il carattere assolutamente perentorio per cui un medico di pronto soccorso deve intervenire; fosse anche il peggior delinquente, magari un omicida, che una volta salvato, corre il rischio di finire sulla sedia elettrica. Come è già accaduto negli Usa. Ma niente giustifica il medico a sottrarsi a questa responsabilità. Ed è proprio per questo che risulta difficile capire la scelta del medico obiettore, perché l’obiezione non c’entra proprio. E per questo il licenziamento del medico, voluto dalla Asl dopo una rapida inchiesta, sottolinea non la sua condizione di obiettore, ma la sua inadeguatezza come medico di pronto soccorso, un professionista che evidentemente non è stato in grado di fare bene il suo lavoro.
Ma questo caso ci aiuta ad approfondire anche molte altre questioni, a cominciare dal fatto che sappiamo che si trattava di un aborto farmacologico, che la donna aveva intrapreso autonomamente, ma che non era riuscita a gestire correttamente. Per cui oltre alla vita del figlio ha messo pesantemente a rischio anche la sua. La legge 194 insiste in modo inequivocabile sul fatto che gli aborti si facciano in ospedale, non certamente per controllare la donna come soggetto giudicante, ma per prevenire rischi e conseguenze. Per garantire la sua salute. Per questo quando è stata lanciata la Ru486, in cui l’aborto farmacologico si svolge in due tappe: prima il distacco dell’embrione dalla parete uterina e poi la sua espulsione, molti ginecologi, ricordando la prudenza con cui la legge 194 impone l’ambiente ospedaliero come setting di sicurezza per la donna, hanno chiesto che anche quel tipo di aborto si facesse in ospedale. Tutti ricordiamo le proteste sollevate da alcuni movimenti femministi, che vedevano in questa prassi una limitazione alla libertà della donna e alla sua privacy. Eppure già allora erano noti alcuni casi di donne morte dopo aver tentato di assumere la pillola fuori dal controllo medico e fuori dall’ambiente ospedaliero.
Denunciare il caso di Napoli solo come esempio di malasanità, fortunatamente andato a buon fine, perché un obiettore non si è comportato come avrebbe dovuto fare, è giusto, ma non esaurisce del tutto la gravità del caso e non permette di prevenire casi analoghi. L’aborto è una cosa seria e non solo sotto il profilo etico e psicologico. E’ cosa seria anche per la tutela della salute della donna. Quarant’anni fa anzi fu proprio la tutela della salute della donna a sollecitare la depenalizzazione dell’aborto, perché non incorresse nelle false cure di quelle che allora si chiamavano le mammane o in quelle assai più costose, ma non meno a rischio degli altrettanto famosi cucchiai d’oro. Ma 40 anni fa l’aborto era quasi esclusivamente chirurgico e si cercò di rendere sicuro quel tipo di aborto, vincolandolo all’ospedale pubblico, dove le garanzie potevano essere maggiori.
Oggi è cambiato il quadro complessivo, con la contraccezione diffusa si è ridotto di molto il ricorso all’aborto e se l’Italia è il Paese delle culle vuote, quello in cui nascono meno bambini, tanto da far parlare di inverno demografico, questo lo si deve ad una cultura contraccettiva diffusa fin dalla giovanissima età. Ma non per questo si possono sottovalutare i rischi dell’aborto, anche e forse soprattutto di quello farmacologico. Negli adolescenti si è diffusa la tendenza alla pillola del giorno dopo a scopo puramente precauzionale, senza neppure mettere in conto il fatto di essere rimasta incinta. Una potenziale banalizzazione che nasce da una liberalizzazione dei comportamenti sessuali tale da aver reso obbligatoria la vaccinazione da papilloma anche per le giovanissime.
Sono molte le questioni messe in gioco dal caso dell’Asl di Napoli 1 e varrebbe davvero la pena analizzarle tutte, una ad una, con calma e con il rispetto che meritano. Ad esclusiva tutela della salute della donna.