È davvero avvilente assistere al battibecco tra vice primi ministri, ascoltando argomenti vecchi di vent’anni, appartenenti a un confronto, peraltro, che in Europa è finito più di 50 anni fa.

Il provincialismo parrocchiale del nostro Paese merita lo scherno dei partner europei e internazionali, quando si parla di ambiente e specialmente di rifiuti. Del resto, ogni anno, in Italia vengono pubblicati oltre 5mila articoli stampati e oltre mille ore di dossier televisivi sul tema dei rifiuti, ovviamente sempre di denuncia e allarme, mentre in Francia, come in Germania, appaiono poche decine di articoli e poche ore televisive, perlopiù di informazione positiva e di incitamento ai buoni comportamenti. Oramai, in Italia, abbiamo più esperti di rifiuti che di football e sul tema, naturalmente, ci dividiamo come allo stadio. Che lo facciano due alte cariche dello Stato, un milanese e un napoletano, è proprio deprimente. Ciò detto, la questione, tutto sommato, è banale e può riassumersi in due elementi cardine:



1. Il futuro appartiene ad un modello di sviluppo ad economia circolare nel quale la linea retta estrazione/trasformazione/consumo/smaltimento delle risorse naturali sarà sostituita dal cerchio risparmio/riuso/riciclo. Questa è una via obbligata, non un’opzione. I cambiamenti climatici come l’esaurimento di risorse finite, non possono essere contrastati e invertiti se non ripensando il brutale modello consumistico degli ultimi due secoli. Continuando con l’economia lineare, a dispetto di tutti i Trump e i Putin del mondo, non ci sarà futuro.

2. Nella fase transitoria (10 anni?) avremo ancora bisogno di inceneritori e discariche per non affrontare emergenze igienico-sanitarie procurate dalla mancata corretta gestione dei rifiuti. All’orizzonte, neanche tanto lontano, gli inceneritori non ci sono, ma farne a meno, ora e per qualche altro anno, non è possibile. Sarebbe una sciagura, a Torino come a Napoli, a Roma come a Milano.

Nella Comunicazione ufficiale della Commissione europea, al Parlamento di Strasburgo, del 26 gennaio 2017 la Commissione raccomanda “una moratoria di nuovi inceneritori e lo smantellamento di quelli vecchi e inefficienti” entro il 2030. Ciò, perché nel 2016 sono state incenerite, nel continente, 81 milioni di tonnellate di rifiuti, nei 386 inceneritori europei (43 in Italia) con un incremento del 6% rispetto all’anno precedente. Si brucia troppo e se è vero che questo ha permesso di ridurre drasticamente il fabbisogno di discariche (solo il 3% dei rifiuti svedesi o olandesi va in discarica, il 5% in Germania e Austria) e di risparmiare combustibili fossili (sostituendoli con combustibili ottenuti dai rifiuti) per riscaldare le città, è anche vero che la dissipazione di 81 ml/ton all’anno di materia, perlopiù recuperabile, rappresenta un enorme spreco di risorse naturali. Comunque sia, in Europa, nessuno discute poi tanto della pericolosità degli inceneritori (lo fanno gli italiani), bensì della riconversione ecologica del modello di sviluppo, fondata sul risparmio di risorse naturali e sulla preservazione della biosfera.

Il nostro provincialismo, del resto, è pure sciatto: tutti pronti a combattere l’inceneritore, ma nessuna seria politica è stata adottata per mitigare il traffico veicolare (che concorre per il 34% all’emissione di gas serra), per rallentare l’uso di combustibili fossili per il riscaldamento civile (che concorre per il 28%) o per migliorare le emissioni industriali delle manifatture (da cui proviene il 21% dei gas climalteranti). Più facile prendersela con gli inceneritori, anche se il loro apporto al cambiamento climatico è inferiore allo 0,1% (quello delle discariche è del 2%). Il “mostro” è un facile bersaglio, visibile, fermo, silenzioso. Aggredire 40 milioni di automobili, 10 milioni di caldaie (di cui un numero crescente a pellets, quindi più inquinanti) o decine di migliaia di manifatture, sarebbe molto più complicato e non porterebbe troppo facili consensi come quelli che si acquistano con la lotta al “mostro”.

Gli inceneritori italiani (43 in esercizio) non sono tutti uguali. I più recenti (Torino, Bolzano, Ferrara, Napoli…) hanno eccellenti performance di efficienza, sono sicuri e fanno egregiamente il loro mestiere riducendo la massa dei rifiuti che vi vengono conferiti (mediamente dell’80%) e producendo energia. Le scorie pesanti, quasi al 90%, sono recuperabili, specialmente nei cementifici. Un’altra categoria di impianti, meno recenti, ha comunque ottime prestazioni, perché hanno incorporato ogni innovazione tecnica finalizzata ad ottenere migliori standard ambientali (Milano, Brescia, Bologna, Frosinone e molti altri). Taluni inceneritori, più vecchi, hanno faticato a introdurre le innovazioni tecniche, poiché la loro piccola taglia (sotto le 80mila ton/anno) non ha assicurato veloci e consistenti finanziamenti necessari ai revamping. Gli impianti più vecchi e meno efficienti, come raccomanda la Commissione europea, dovrebbero essere smantellati oppure, considerato che il sito è già impegnato e a valle di una severa analisi dei fabbisogni, valutarne l’ammodernamento o l’ampliamento. Anziché tenere in vita, magari con un po’ di “accanimento terapeutico”, impianti obsoleti, è preferibile chiuderne due e ampliarne un terzo in modo che questo possa innovarsi e diventare performante grazie alle economie di scala.

In buona sostanza, servirebbe una strategia nazionale per l’ottimizzazione delle infrastrutture disponibili per fare in modo che l’attuale capacità installata (6,1 milioni di ton/anno) non cresca, bensì si qualifichi sul piano della salubrità, della sostenibilità e dell’efficienza. Poi, con il 2030 e in presenza del successo della prevenzione dei rifiuti (eco-progettazione dei beni di consumo, vuoto-a-rendere, riuso ecc.), della raccolta differenziata (al 70% e oltre) e del riciclaggio (compostaggio e recupero di materia da altre matrici), dalla moratoria si potrà avere il totale decommissioning degli inceneritori, in Italia come nel resto d’Europa. Dunque, è assai intelligente preferire l’ampliamento di impianti esistenti per affrontare i prossimi dieci anni, anziché imbarcarsi nella costruzione di nuovi impianti che vedrebbero la luce tra 5 o 7 anni, per poi essere penalizzati, dal 2030, con ecotasse e balzelli di ogni genere, sia nazionali che europei.

Lo “Sblocca Italia”, timidamente, aveva provato ad anticipare una politica nazionale permettendo l’uso degli inceneritori italiani a tutti i territori che ne avessero la necessità, aldilà dei confini regionali. La reazione delle Regioni del Nord (primissima la Lombardia) è stata feroce: teneteveli a casa vostra. Ciò, nonostante i proprietari degli inceneritori avessero pure “bisogno” di quei rifiuti, per saturare i loro impianti e nonostante il fatto che le Regioni “riceventi” abbiano incassato 20 euro/ton da quelle “conferenti”. Nel corso del 2017, dalla Campania, dal Lazio e dalla Puglia sono state conferite agli inceneritori del Nord circa 1 milione di tonnellate di rifiuti con un trasferimento di ricchezza (quella pagata dalle regioni meridionali per lo smaltimento) dal Sud al Nord di oltre 150 milioni. È curioso osservare che la più tenace avversione politica, a quella misura dello “Sblocca Italia”, sia stata montata dai cittadini portavoce del M5s, che si sono trovati alleati della Regione leghista della Lombardia, contro l’interesse di una città come Roma, a guida M5s, che degli inceneritori del Nord ha bisogno come l’aria per respirare (100mila tonnellate di rifiuti capitolini esportati negli inceneritori settentrionali nel 2017). Curioso, pure, che un vicepremier proponga di realizzare “un inceneritore in ogni provincia”: non solo quelli che abbiamo sono già troppi (e tanti, troppo piccoli), ma nel futuro prossimo non dovrebbero essercene più. Per essere performante, sia ambientalmente che economicamente, un inceneritore moderno dovrebbe avere una capacità di trattamento superiore alle 250mila ton/anno.

In un territorio in cui si facesse una bassa raccolta differenziata (circa il 40%), per avere quella quantità di rifiuti da bruciare, si dovrebbero raccogliere i rifiuti prodotti da più di un milione di abitanti. Province con più di un milione di abitanti e sprovviste di inceneritori, in Italia, non ce ne sono. Almeno avesse parlato di Città metropolitane, il vicepremier, sarebbe andato meno fuori binario: quelle di Roma, Genova, Firenze, Palermo e Bari, infatti, non hanno inceneritori. Concentrare l’attenzione sulle Città metropolitane e lasciar perdere le piccole province del Sud, sarebbe assai più saggio.

La risposta dell’altro vicepremier: “gli inceneritori sono un business dei clan di camorra”, è incommentabile. Quasi tutti gli inceneritori italiani di rifiuti urbani sono stati progettati, costruiti e gestiti da aziende pubbliche ex municipalizzate. Quelli privati sono meno del 10% e ricevono meno del 5% dei rifiuti urbani combustibili. Associare gli inceneritori alla camorra è veramente uno schiaffo insopportabile per tutte quelle operose comunità del Paese che hanno risolto il problema con il loro ingegno, i loro soldi e la loro lungimiranza.

La Campania, parlando di rifiuti, è certamente un caso emblematico. Occorre premettere una cosa: la salatissima multa, comminata dalla Corte di giustizia europea (120mila euro al giorno) allo Stato Italiano (ma pagata dalla Regione) nel 2011, ha un incipit importante. Lo Stato italiano è stato condannato perché “…non ha provveduto a garantire la salute pubblica dei cittadini europei residenti in Campania…”. Due cose evidenti: la responsabilità è dello Stato, i campani sono cittadini europei che hanno gli stessi diritti di tutti gli altri. Soltanto il nostro provinciale bizantinismo istituzionale fa si che lo Stato scarichi sulla Regione una sua propria responsabilità e soltanto il nostro stereotipato campanilismo ci fa ritenere di essere tutto, fuorché “europei”. La sentenza della Corte di giustizia europea ha condannato l’Italia, dunque, per tre ragioni: 1) la mancata bonifica del sito di Ferrandelle, dove furono rovesciate 350mila tonnellate di rifiuti (2008-2009) pare senza alcuna precauzione (si era in piena emergenza), 2) la giacenza di oltre 6 milioni di tonnellate di rifiuti a cielo aperto, in 25 siti diversi (le ecoballe) e 3) la mancata “messa in sicurezza” del ciclo dei rifiuti della regione (un Piano regionale adeguato). È evidente che seppure la Regione si sia dotata di un Piano regionale per la gestione del ciclo integrato dei rifiuti, anche se piuttosto convincente e che può soddisfare la richiesta europea del punto 3), fintanto che non sarà bonificata la “discarica emergenziale” di Ferrandelle e non saranno eliminate le ecoballe, la multa continuerà ad essere pagata. Quando il Governo Renzi stanziò 450 milioni per eliminare le ecoballe, ovviamente, si fece un calcolo: la multa vale 44 milioni all’anno, quindi, meglio spenderne 450 subito e risolvere il problema, anziché pagarli all’Unione Europea per dieci anni e non risolvere alcunché. Il problema è che quei rifiuti, pure massimamente combustibili, presentano caratteristiche tecniche particolari (elevata presenza di polvere, dovuta alla biodegradazione delle matrici organiche, avvenuta in un decennio, per esempio, che complicano la combustione nei forni), vengono a proporsi su un mercato domestico saturato dai rifiuti del Lazio e di altre Regioni (anche Liguria e Toscana) e un mercato europeo ancora ingombro di rifiuti britannici, in più devono affrontare procedure di evidenza pubblica (gare di appalto) particolarmente lente e complesse.

In un mercato così turbolento, la fissazione dei prezzi, ad esempio, è sempre instabile, con mutamenti sincopatici e giornalieri. Prezzi, ovviamente, in continua crescita. Eppure le ecoballe devono essere smaltite al più presto e nel modo più conveniente possibile. Costruire un impianto dedicato alla missione (gassificatore di Giugliano) non è stata una buona idea. Nuovi inceneritori, in aree non interessate da un pre-esistente “sito termico” industriale da riarmare, non se ne faranno, né in Campania né altrove. Non resta che una soluzione, quella anticipata da Asia Napoli nel 2013: aprire le balle, pulirle dei materiali non combustibili e forse altrimenti riciclabili e quindi inviare quelli combustibili ad una nuova linea di incenerimento, con recupero di energia, da attivare nel plesso di Acerra. L’inceneritore di Acerra è di proprietà della Regione Campania (non è della camorra), ha eccellenti performance ambientali e tecniche, genera ricavi importanti. Insomma: è affidabile e strategicamente insostituibile. Entrato in esercizio nel 2009, ha esaurito le sovvenzioni pubbliche nel 2018 e ne cesserà la gestione, la lombarda A2A, nel 2023. Dal progetto alla costruzione della quarta linea potrebbero intercorrere circa due anni, ma dal momento del rilascio dell’autorizzazione (Aia Regionale) forse potrebbe aprirsi un confronto in sede europea per riconsiderare (sospendere? ridurre?) la multa comminata dalla Corte di giustizia.

Nel frattempo potrebbero essere esperiti altri tentativi per collocare le ecoballe a inceneritori europei disponibili (ipotesi gradita, evidentemente, agli altri Paesi), ma la soluzione prospettata sarebbe coerente con la Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo (decommissioning degli inceneritori) e con tutta la politica, in materia di rifiuti, promossa dalle autorità di Bruxelles. Del resto, mano a mano che la raccolta differenziata crescerà e che avranno successo le azioni di prevenzione, è lecito attendersi una diminuzione dei rifiuti da incenerire così da recuperare spazi, nelle tre vecchie linee di Acerra, da destinare alla combustione delle ecoballe accelerando, nel tempo, il loro totale smaltimento.

Una questione, tuttavia, resta aperta: quella della frazione umida tritovagliata (Fut) prodotta dagli Stir. Se la frazione secca tritovagliata (Fst) ha una collocazione certa negli inceneritori, aldilà delle criticità conosciute, la frazione umida tritovagliata ha, fino ad oggi, una destinazione certa a discarica. Altro non si può fare, con la Fut, se non interrarla in discarica. Ma in Campania non ci sono discariche e quindi si è costretti all’export, sia sul territorio nazionale che verso l’estero, a costi rilevanti (circa 160 euro/ton) ed elevata incertezza per le disponibilità di conferimento.

Le attuali eccedenze di Fst possono essere collocate sul mercato e tra qualche tempo, laddove si ampliasse l’inceneritore di Acerra, potrebbero trovare collocazione in quello stabilimento, grazie anche allo sviluppo della differenziata e alla riduzione dei rifiuti “tradizionali” da bruciare.

La Fut, invece, ha bisogno di discariche. Almeno finché resta Fut.

Orbene, la Fut è un miscuglio di rifiuti estratto dalla tritovagliatura di rifiuti indifferenziati, con alte percentuali di umidità (superiori al 50%), poiché principalmente composto da matrici organiche. Pure elevata è la quantità di biogas contenuta nella Fut e procurata dal processo di biodegradazione naturale delle componenti organiche. Consegnata a una discarica, la Fut rilascerà, quindi, percolati (liquidi) e biogas, degradando nel tempo di circa il 50% in massa. Già risulta evidente la follia di pagare per trasportare acqua in discarica (il 50% del peso della Fut è acqua), ma ancor più stupisce che si debba affidare alla discarica una risorsa come il biogas, dal quale si può estrarre biometano, sostitutivo di combustibili fossili.

Uno spreco enorme se si pensa che da una tonnellata di Fut si possono ricavare circa 70 metri cubi di biogas e da quel biogas, opportunamente depurato, si potrebbero ricavare circa 30 mc di biometano, da immettere nella rete del metano ovvero da utilizzare come biofuel per l’autotrazione.

In buona sostanza, anche la Fut, che oggi è un problema, in realtà è una risorsa. Dissipata, come tante altre, troppe, della Campania.

Del resto, in questa regione, ci si accorge sempre troppo tardi delle opportunità che potrebbero essere generate da una sapiente, tenace e lungimirante azione di governo.

Una per tutti: nei suoi 9 anni di esercizio l’inceneritore di Acerra ha incassato 1 miliardo di euro dal gestore della rete elettrica nazionale (Gse) per l’energia che ha prodotto e venduto. Un miliardo di euro procurato dai rifiuti napoletani e campani, ma quanti di quei soldi sono rimasti sul territorio?