La violenza psicologica è il tentativo di controllare l’altra persona senza ricorrere alla violenza fisica, ma mediante minacce e intimidazioni, ricatti, atteggiamenti e comunicazioni squalificanti e offensivi. La violenza psicologica, quindi, non utilizza la forza fisica. Si manifesta soprattutto con parole e con atteggiamenti e atti volti a piegare la volontà altrui in termini complessivi, cioè ad alterare o perfino annullare la capacità decisionale, l’indipendenza e l’autostima della vittima. Sul piano concreto tale violenza si estrinseca nel tentativo di sopprimere la libertà altrui, esercitando uno stretto controllo sulle sue frequentazioni, sul suo comportamento in diversi contesti, sui suoi mezzi finanziari, sui suoi gusti, sul suo tempo, sui suoi pensieri, sentimenti ed emozioni…



Le persone vittime di violenza psicologica da parte del loro partner, però, assai spesso non sono prese sul serio o non sono credute da coloro che le circondano. Così, oltre a sentirsi abbandonate, può capitare che giungano anche a convincersi di avere drammatizzato quel che accade loro e di tendere ad autocompatirsi. Insomma, finiscono col procurare a sé stesse una parte di quel danno che gli infliggono i partner violenti: si colpevolizzano. Infatti, non è raro che la vittima di violenza, a forza di sentirselo dire arrivi a credere davvero all’argomento che le sue sono difficoltà che dovrebbe saper gestire da sola, che l’altro gli vuole solo tanto bene (tantissimo!) e si preoccupa per lei, e che quella di cui parla, semmai, è normale dinamica conflittuale.

Parlare di conflitto coniugale, da quando è stato depositato il ddl n. 735 in Senato, fa, però, venire in mente la mediazione familiare, che nel disegno di legge del senatore Pillon è prevista come obbligatoria per le coppie che non approdano ad una separazione consensuale. Ebbene, chi svolge la professione di mediatore familiare può incontrare il fenomeno della violenza psicologica e trattandosi di un fenomeno non facile da rilevare, finisca con l’aggravare una condizione già terribilmente drammatica.

Una possibilità per contenere tale rischio potrebbe essere quella di prevedere sempre, per tutti i conflitti presi in carico, che il percorso inizi con dei colloqui separati. In tal modo, prima degli eventuali incontri al tavolo della mediazione tra i protagonisti del conflitto, costoro verrebbero ascoltati più volte separatamente. Nell’esperienza di chi scrive, ad esempio, grazie all’adozione sistematica e senza eccezioni di tale dispositivo, capita che questi colloqui individuali svolgano proprio la duplice funzione di consentire, da un lato, alla persona vittima di violenza di parlarne senza il timore della reazione del maltrattante, dall’altro di accompagnare la vittima verso una maggiore consapevolezza circa il fatto che quella posta in essere nei suoi riguardi è una condotta violenta, non riducibile a mera divergenza di vedute, di opinioni, di interessi, ecc.

Infatti, il conflitto all’interno della coppia può essere interessato anche da un’escalation molto significativa, capace di ridurre vistosamente le possibilità dei singoli di comunicare tra di loro e di conservare un minimo di fiducia e di rispetto reciproci. La violazione dei limiti individuali e l’arrecare volutamente danno ad altri, però, non sono comportamenti assimilabili ad una mera condotta conflittuale: in tali condizioni, la condotta dispiegata è violenza.

In definitiva, chi si occupa di mediazione familiare dovrebbe avere un po’ di competenze vittimologiche e dotarsi dei modi e degli accorgimenti per declinare un basilare “victim support”. 

In mancanza di ciò, i mediatori familiari nella loro quotidianità rischiano, da un lato, di ravvisare la violenza psicologica quando non c’è e, dall’altro, di non riconoscerla quando c’è, scambiandola per normale conflittualità di coppia.

D’altra parte, per i mediatori familiari è obbligatorio avvalersi di una supervisione ad hoc, così come svolgere percorsi di aggiornamento, e in entrambi i contesti il fenomeno della violenza e segnatamente quello della violenza psicologica potrebbe essere esplorato.

Per concludere, è bene esplicitare che in tutti i casi in cui la violenza dovesse emergere nello sviluppo di un percorso di mediazione familiare, questo andrebbe interrotto, dando luogo all’attivazione di altre iniziative di sostegno.

Quindi, appare più che opportuno che i mediatori familiari siano anche in grado di sapersi connettere agevolmente con quelle realtà del loro territorio che si occupano di violenza.