Andrea Masi, 18enne, è morto l’altra notte per un incidente sul lavoro mentre sistemava una fibra ottica all’interno del parcheggio del centro commerciale Portello a Milano. Sembra che, a bordo di una piattaforma elevatrice, abbia sbattuto la testa contro lo stipite superiore di una trave. Andrea era un ragazzo come tanti, però, forse, non era solo un ragazzo come tanti.



Era un ragazzo come tanti perché usava Instagram. L’ultima foto postata è di pochi minuti prima dell’incidente. Ha la didascalia “work” e lo ritrae con una felpa nera e una sigaretta in bocca. È un ragazzo come tanti perché il tam-tam della sua morte si diffonde — giusto il 2 novembre — attraverso i social e la sua prof. scrive lì, sul suo profilo, un ricordo commovente. Un tempo si sarebbe chiamata “lettera” ma oggi è un “post” e fa piangere perché parla di uno che entra a scuola bambino e ne esce uomo.



Andrea era un ragazzo come tanti ma era anche unico, perché era stato coerente e si era fatto carico della propria vita: non gli piaceva studiare e quindi si era messo a lavorare. Non è scontato. Sono tanti i ragazzi a cui lo studio non piace ma non arrivano alle conseguenze delle loro scelte e restano in ciò che non amano. Ovvero, sebbene non amino lo studio, non decidono di lavorare e rimangono a scuola senza fare né una cosa né l’altra: non studiano e non lavorano. Un ragazzo a cui lo studio non piace e quindi si impegna per lavorare non è un ragazzo qualsiasi: è un ragazzo unico perché nella sua vita mette coerenza e impegno.



A 18 anni puoi sapere, come dice Papa Francesco, che una parte importante della dignità di vivere ti viene dal lavoro. E se il tuo lavoro è lo studio ma non studi, allora devi cercarti un lavoro altrimenti perdi la dignità: rimani al caldo della scuola ma perdi il senso della tua vita, non onori più la tua esistenza. E infatti Andrea era fiero del suo lavoro, per questo aveva postato su Instagram non la foto di un tramonto ma il suo viso soddisfatto mentre lavorava prima delle 4.00 del mattino. Perché era al primo impiego e quell’impiego se l’era trovato lui. La sua prof. scrive: “il mio alunno che ce l’aveva fatta”. Ce l’aveva fatta non perché era diventato amministratore delegato di una multinazionale, ma perché era riuscito a prendersi in mano la vita. “Andrea che io volevo continuasse a studiare e lui no prof, io voglio lavorare, Andrea che quel lavoro l’aveva trovato, Andrea che quel lavoro ce l’ha portato via. Andrea, Andrea Masi, il mio alunno che ce l’aveva fatta”.

La scuola e la famiglia avevano fatto di Andrea un giovane responsabile, pronto a prendersi sulle spalle la propria vita, ad inserirsi in società. Onesto. Attento agli altri. Come quando alla sua prof. si era rotto un orologio del nonno e lui subito si era offerto di aggiustarlo.

Sarebbe stato meglio che Andrea avesse continuato a studiare così non sarebbe morto, dice qualcuno. Ma questo non è vero. È meglio, sempre, prendere in mano la propria vita. Che non dev’essere per forza andare a scuola ma dev’essere, per forza, seguire la propria strada: lavorare anche solo come operaio se è giusto, invece di umiliarsi in una scuola che non ami. Questo nulla toglie alla tragedia di una morte alla quale però Andrea è arrivato vivendo. E non sopravvivendo.