AGORDO (Belluno) — Impossibile in questo lungo “ponte” di Ognissanti raggiungere la nostra casetta, in una delle frazioni più alte di Vallada Agordina. Le strade sono interrotte, sia dopo Agordo che dopo Cencenighe. I vicini di casa, gli unici che abitano il minuscolo paesello per tutto l’anno, un po’ ci tranquillizzano: “La casa è intatta, ma quella di fianco (più vicina alla stradina) è sprofondata nel terreno di almeno 15 centimetri, e i muri si sono crepati”. Ci mandano fotografie che stringono il cuore, lo slargo della strada dove si parcheggia, da trent’anni la nostra “piazzetta”, è invaso dai detriti franati dalla montagna, la stradina è sprofondata isolando ulteriormente l’ultima frazione che sta ancora più in alto.
I vicini, che come tanti in questa zona lavorano alla Luxottica di Agordo (chiusa per una settimana) hanno di nuovo l’elettricità e il riscaldamento solo dalla sera del 1° novembre dopo tre giorni di blackout e tre notti sottozero. Come loro centinaia, migliaia di famiglie nell’alto Agordino e in Cadore, devastate dalla più grande sciagura ambientale che qui a memoria d’uomo si ricordi, e che a memoria di letture è seconda solo alle gigantesche frane che l’11 gennaio e il 1° maggio del 1771 ostruirono il fiume Cordevole e formarono il lago di Alleghe, sommergendo intere borgate. Allora i morti furono più di 50. Oggi, finora, si contano almeno quattro vittime sui monti bellunesi.
Appena sarà possibile cercherò di raggiungere le mie montagne, per capire cosa è rimasto e cosa se ne è andato per sempre. Non solo per l’uomo, anche per la natura. Il Cai mi avverte che molti sentieri dell’Agordino e del Cadore sono distrutti, anche quelli dietro casa nostra, verso le Cime d’Auta e il Sasso Bianco, che dopo trent’anni percorrevo come a occhi chiusi, perché rivolti solo alle cime degli alberi per scorgere il volo dell’astore o verso il lontano sottobosco dove c’era quasi sempre la sagoma di un capriolo.
Centinaia di migliaia di alberi sono stati abbattuti, da Paneveggio fino ad Auronzo, dal vento fino a 200 chilometri all’ora e dalle masse d’acqua che hanno messo a nudo e spezzato le radici. Mi interesso di fauna selvatica, in particolare di uccelli rapaci e di lupi, che monitoro nella loro colonizzazione di nuove aree (con relative, anche giuste proteste da parte degli allevatori di ovini e bovini) sulle montagne agordine. Saranno proprio i lupi, forse, i primi a scoprire che la catastrofe potrà avere, almeno per loro, qualche vantaggio, perché lo sconvolgimento del territorio ne favorirà la caccia alle disorientate prede abituali, cervi, caprioli e mufloni. Ma il primo posto in cui andrò appena sarà riaperta la strada, da cittadino che ama più di tutto la montagna, è la Valle di San Lucano, sopra Taibon Agordino, una delle ultime wilderness d’Italia, per vedere se sia stata ferita a morte. Ferita lo è stata, doppiamente e in modo paradossale. Prima dagli incendi, che il caldo anomalo e il vento hanno provocato dopo il 20 ottobre devastando i boschi intatti della valle. Poi, a fine mese, dalle bombe d’acqua e le frane. Che almeno non crollino le rocce dell’Agnèr, montagna simbolo dell’alpinismo, nume tutelare della valle e di quel pugno di coraggiosi residenti che ancora vi abitano.