L’uomo aveva a tiro del suo coltellaccio cinque impiegate dell’ufficio postale di Via Fratelli Cervi a Reggio Emilia. Voleva parlare con il ministro della Difesa o con l’onnipotente Salvini. Infine si è consegnato. Fuori i suoi parenti gli davano ragione: era una protesta per l’ingiusta sentenza di condanna a 19 anni per appartenenza alla ’Ndrangheta, subita sei giorni fa all’esito del processo Aemilia, svoltosi in quella medesima città. Era in primo grado, ma per la pericolosità sociale del reato i giudici avevano stabilito di inviarlo in carcere. Non si era fatto trovare dai carabinieri. E stato lui a cercarli.
Non è stato terrorismo. Non si è fatto male nessuno (se non nella psiche delle signore tenute sotto minaccia di morte). Non era un islamico. In questi casi il giorno dopo si glissa, non ci si bada. Dal punto di vista mediatico interessante è solo la diretta: può sempre esserci il blitz dei Gis, può sgorgare il sangue. Non c’è stato, ma la tensione sì. Le telefonate con gli ostaggi fatte da Radio Rai sono uno spettacolo di giornalismo sul pezzo, ricordano l’America. E’ esattamente ciò che il criminale vuole: attenzione dai media. Lui non è un numero del maxi-processo, lui ha un nome. Guardatemi!
Si chiama Francesco Amato e ha una grande sfortuna, se è davvero innocente (e fino al terzo grado di giudizio vale la presunzione di non colpevolezza, secondo l’articolo 27 della Costituzione): la testa con la forma proprio perfetta per un film di Coppola su Cosa nostra, il volto che non ispira bontà. Ma non è un reato. E di certo se era veramente del clan, una grinta così aiutava nell’intimidazione, come Clemenza nel Padrino. Si era involato dopo il processo. Invece di darsi alla latitanza, aveva scelto l’esibizione della sua protesta. Intorno c’erano i parenti, a fare pubblico, che hanno ironizzato sull’intervento dei carabinieri: “Avete sconfitto la ’Ndrangheta”.
Io dico questo. Un disperato, un innocente, un uomo che si sente vittima della giustizia, in buona o cattiva fede, non sappiamo, dimostra di essere malvagio se ruba la libertà, tiene in pugno la vita e la morta di persone inermi. La disperazione non fa del male a delle signore spaventate, ai loro cari, costretti a sorbirsi il calice dell’angoscia. Uno che gioca così con gli altri, se voleva dimostrare con ciò la proprie mitezza, la sua estraneità alla malavita, è riuscito esattamente nell’intento contrario. Se non era criminale, lo è diventato.
Detto questo, qui esprimo un piccolo pensiero molto personale: i maxiprocessi – il cui progenitore fu istruito da Falcone come pm, e gestito da Giordano e Grasso come giudici, e fu un fiero colpo a Cosa nostra, che resse anche in Cassazione – portano con sé il rischio di giudicare la massa invece che il singolo. E la difesa stenta a far emergere la differenza di ogni singolo imputato nel quadro della vicenda.
E un complimento ai carabinieri, stupidamente offesi: in America, nove su dieci si sarebbe fatto male qualcuno. E Francesco Amato adesso protesterebbe in una bara.