Sembra tutto circoscritto ad alcuni messaggi in un forum jihadista l’attività terroristica del libanese di origini palestinesi Amini Alaj Ahlad, 38 anni, arrestato a Macomer, in Sardegna. Scriveva di aspettare “che i fratelli musulmani rifondassero Roma”. “Lo sto aspettando da prima di te”, rispondeva sul forum ‘ghuraba.top’ a chi scriveva: “Attendendo che i nostri fratelli musulmani rifondino Roma”.
Nella memoria del cellulare gli agenti della Digos di Nuoro e Sassari hanno trovato riferimenti “a una vasta letteratura e documentazione inerente sostanze venefiche letali, come le aflatossine B1 e il metomil, un pesticida potentissimo che l’uomo ha tentato a più riprese di acquistare su siti di e-commerce” .
L’arresto, spettacolare, è scattato mentre cercava di risalire sul furgone parcheggiato lungo il corso principale di Macomer, dopo avere prelevato dalla sua banca 5.700 euro. Nel paesone del Marghine, 10mila abitanti, l’uomo vive con la moglie marocchina e due figli, con regolare permesso di soggiorno e l’assistenza del Comune per le condizioni di indigenza della famiglia.
A settembre era stato arrestato in Libano un suo cugino, sospettato di progettare l’avvelenamento dell’acqua di una cisterna, che l’avrebbe chiamato in causa come complice della rete dell’Isis con ramificazioni all’estero. Gli inquirenti dicono che persino la moglie risulta ignara di queste attività del marito, dei progetti terroristici, ammesso che li abbia covati davvero.
Macomer ospita molti immigrati, sono in genere commercianti ambulanti, vivono in case del centro, nella cittadina che perde abitanti da più di vent’anni. Cresciuto ai primi del Novecento attorno alla stazione ferroviaria a metà del tragitto Cagliari-Sassari, fu per impulso di alcuni industriali caseari laziali che insediarono i loro stabilimenti che il paese si sviluppò. Negli anni Settanta e Ottanta era uno dei poli dell’industria tessile della Sardegna centrale, a poca distanza da Ottana. Hanno chiuso tutti gli stabilimenti, e ora dentro i capannoni, quando va bene, vengono stoccate le merci destinate ai centri commerciali.
In sovrappiù, nei primi anni Novanta ha smobilitato il Car dell’Esercito italiano, che ha visto alternarsi migliaia di giovani militari di leva (da Bersani, che ricordò l’esperienza passandoci in campagna elettorale qualche anno fa, al giovane rampollo della ricca famiglia Piazza, che andava via in permesso e tornava con l’elicottero nella caserma alla periferia del paese). Ora in quegli edifici sovradimensionati ci sono 350 militari del Genio, della Brigata Sassari, e potevano essere loro i bersagli del libanese.
La Sardegna è sempre stata ai margini delle ondate terroristiche. Restò una velleità quella di Giangiacomo Feltrinelli, che nel 1968 tentò di coinvolgere Graziano Mesina nel progetto di fare dell’isola la “Cuba del Mediterraneo”, guidando una rivolta popolare. Nonostante tutte le contorsioni del bandito di Orgosolo, la sua disponibilità a ogni genere di attività criminali, dai sequestri di persona al traffico di armi e droghe, quella impresa non la ingaggiò. Tradì anzi Feltrinelli, confidando ogni cosa ai servizi segreti, che hanno inquinato anche la possibilità di rievocazione storica di quella vicenda.
Andò poco meglio ad Antonio Savasta, a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta, quando fece arrivare armi con una barca sulla costa occidentale sarda e tentò di coinvolgere nel progetto delle Brigate rosse un nucleo di banditi-pastori impegnati in alcuni sequestri (fra cui quello di De André) e alcuni studenti del Nuorese, parenti stretti dei primi. Vennero uccisi due allevatori di Orune, vicino a Nuoro, in un conflitto a fuoco con i carabinieri del capitano Barisone che credevano di avere scoperto il covo dei sequestratori e trovarono nell’ovile i volantini della nascente ramificazione sarda delle Br, “Barbagia Rossa”. Il nipote di uno dei pastori presenti al “summit della malavita sarda” — come la chiamarono gli investigatori per giustificare l’assalto all’ovile — compì l’atto più grave di quella stagione, nel 1981, uccidendo un appuntato dei carabinieri, Santo Lanzafame, a Nuoro, puro assassinio politico.
Non aveva nessun fondamento negli anni Novanta il terrorismo anarco-insurrezionalista contro il quale sembrò accanirsi anche il ministro dell’Interno, Beppe Pisanu, e a Firenze il procuratore Pier Luigi Vigna. Allora un gruppo di giovani sardi di un movimento politico sardista indipendentista vennero accusati di un piano per collocare bombe nei tralicci dell’alta tensione fra la Toscana e il Lazio, con l’appoggio della colonia di pastori sardi emigrati in quei pascoli negli anni Sessanta. Finì in nulla.
E’ come se ci fosse un’indisponibilità quasi antropologica dei sardi ad accogliere modelli esterni di organizzazione anche criminale.
Pino Arlacchi ha dedicato un libro, nel 2007, a studiare Perché non c’è la mafia in Sardegna. Le radici di una anarchia ordinata (AAM&D edizioni) , mentre era docente a Sassari di scienze politiche, dopo le esperienze all’Onu. Troppo individualisti, i sardi, era la tesi. Coltivano le loro forme tradizionali, spesso irrazionali secondo i criminologi (lo era il sequestro di persona, per esempio: durava a lungo, con troppe persone coinvolte, forti rischi, pochi soldi da dividere).
Certo, poi irrompono — in questa apparentemente statica, arcaica Sardegna — novità che stupiscono. Proprio a Macomer, ai primi di ottobre, mentre l’Italia era attenta, spasmodicamente, all’omicidio di Desirée a San Lorenzo, il corpo di un ragazzo di 18 anni di questo paesone delle zone interne veniva ritrovato fatto a pezzi nelle campagne di Ghilarza: era stato ucciso un mese prima, a badilate, da un gruppo di amici, due minorenni, studenti, una adolescente, che gli volevano far pagare la mancata restituzione di qualche centinaio di euro di uno scambio di denaro con droga.
Nelle stesse strade dove quindici giorni fa un corteo è sfilato per ricordare il ragazzo ucciso, la scena della cattura del libanese palestinese.