Questa è stata la notte in cui le case si sono riempite d’assenza. Non la notte del terrore, delle urla al telefono e della costernazione di sabato, ma la notte più gelida, quella del silenzio che strizza lo stomaco, dei letti vuoti, quella in cui sai già che non tornerà nessuno. Nessuna preoccupazione per il ritardo, nessun orecchio teso al rumore del motorino che arriva, della chiave che gira nella toppa. La notte più lunga, quella che non si può dire, ma certamente la notte in cui parole come “sicurezza”, “chi ha sbagliato paghi”, “responsabilità” sono suonate così lontane, così insufficienti di fronte al “perché” che sanguina nel petto, di fronte allo strazio delle madri e dei padri che i figli non abbracceranno più. La notte in cui il grido è volato più alto, oltre le case, il cielo, i tweet e le parole dei nostri politici. Perché si potrà imparare, si potrà essere più prudenti, più responsabili, più attenti; ma chi sana il vuoto di quelle madri e di quei padri stanotte nei loro letti? Chi può fare giustizia, chi può dire una parola adeguata su questa tragedia? Una parola di speranza ma che non sia un’illusione, e una parola ragionevole ma davvero all’altezza del dolore. Qual è? Dove si trova?
Ma c’è una domanda ancora più giù, alla quale nessun mondo più giusto e più sicuro può fino in fondo rispondere: cos’è questa vita — questo cumulo di attese, desideri, aspettative — che una sera, quando esci a divertirti con gli amici, ti può essere strappata via senza apparente senso, senza apparente compimento? Dove sono andati a finire i sogni, i progetti, gli amori di quei ragazzi? Che fine fa il desiderio di amicizia e di bellezza che li ha spinti ieri notte dentro quella discoteca?
Siamo leali, tutto di noi in fondo — ogni pensiero, ogni costruzione — è messo sotto scacco dalla morte, dall’ineluttabile dato che non c’è cosa di questo mondo che non finisca. Potremo costruirlo un giorno questo mondo perfetto, più sicuro (e dovremo provarci!) ma non riusciremo a posticipare di un solo secondo l’ora della nostra morte. Questo fatto, se guardato con lealtà, mina alla base ogni tentativo di costruire la felicità con le nostre mani. “Il sesso. La partita / domenicale. / La vita / così è risolta./ Resta / (miseria d’una sorte!) / da risolver la morte”. Così diceva il genio di Giorgio Caproni. E come ha ragione.
Perché il punto che resta, per quei genitori straziati dal dolore, ma anche per noi qui, ora, è proprio questo: “risolver la morte”. Capire perché, provare a coglierne un senso. Quale altra urgenza c’è più grande di questa? Quale altra urgenza in questa notte dei silenzi? La notte dei padri, delle madri, di noi nelle nostre stanze, nei nostri letti. Eppure la fuggiamo perché ci sentiamo così impotenti, così fragili di fronte all’altezza di questa domanda. Non resta che una cosa, forse la più ragionevole da fare: guardare, attendere, se è mai accaduto, se è mai esistito e se esiste ora nella nostra vita qualcosa o qualcuno che questa morte l’ha vinta. Questa è la più grande attesa della storia e forse il più umano gesto di tenerezza verso di noi e verso questi figli che ci hanno lasciato.