Stavolta, sto con il ministro. Perché ha ragione, e perché mi fa tenerezza. Ha ragione, perché i compiti delle vacanze sono una cosa seria. Non si possono dare un tanto al chilo: tot esercizi di matematica, tot frasi di latino, eccetera (a mia figlia una volta diedero per le vacanze estive 17 — diciassette! — temi. Li scaricò tutti da internet l’ultima settimana. E fece bene). Fosse per me, sottoscriverei in toto i compiti assegnati anni fa da due insegnanti di Milano: “Compiti per le vacanze di Pasqua. Riposatevi, divertitevi, prendete un po’ di tempo per non fare assolutamente niente. […] soprattutto regalate tantissimi sorrisi e fatevene regalare altrettanti”. E così via.



Quando lo dico, la risposta dei miei colleghi è sempre la stessa: “Se no, si dimenticano”. Falso. Le cose imparate davvero non si dimenticano mai. Se si dimenticano, è perché non si sono imparate davvero. I miei colleghi sognano — non si può dire, non lo diranno mai — che avvenga il miracolo: che a furia di esercizi imparino da soli — o con la mamma, la nonna, la zia, quel che volete… — quel che non hanno imparato con loro. La verità è che la scuola, longa manus dello Stato onnipotente, non può tollerare che ci siano spazi davvero liberi da lei/lui.



Un’invasività talmente onnipresente che abbiamo finito per farla nostra: ci sono genitori che implorano la scuola di dare più compiti, “perché se no i ragazzi si annoiano”, o “stanno sempre sul cellulare”. Terribile: invece di far diventare la fatica dei figli una sfida, un’occasione per sé, per proporre loro una compagnia cordiale, attività interessanti, preferiscono chiedere alla scuola dosi ancora più massicce di quei compiti per i quali, poi, dovranno continuamente litigare.

Poi, confesso che un po’ mi fa tenerezza, il ministro. Per la sua assoluta impotenza. Perché della sua circolare si infischieranno tutti (come si sono infischiati di leggi e leggine uscite negli ultimi decenni: la scuola, nella sostanza, è ancora quella di quando la frequentavo io, che ora sono sulla soglia della pensione). Perché, ancor prima di uscire, è già stata impugnata secondo schieramento politico. “Di ben altro ha bisogno la scuola”, ha tuonato per esempio Angela Nava Mambretti, presidente del coordinamento Genitori democratici. Ha ragione, certo, di ben altro la nostra povera scuola avrebbe bisogno. Ma:



1: il “benaltrismo” è uno dei nostri sport nazionali, la scusa che tutti accampano quando qualcuno fa qualcosa di giusto, ma siccome è nostro nemico non possiamo riconoscerlo;

2: al vero “ben altro” — abolizione del valore legale del titolo di studio, autonomia e parità vere — nessuno può metter mano, perché tutti, “benaltristi” in testa, gli salterebbero al collo.

Ergo: buon Natale, caro signor ministro, animato di intenzioni ottime, impotente davanti al Moloch che tutti vogliono che cambi perché rimanga così com’è.