Antonio Megalizzi ha 28 anni e martedì sera si trova ai mercatini di Natale di Salisburgo. Da diverso tempo ha deciso di occuparsi di Europa e sta diventando giornalista anche grazie a Europhonica, il primo format radiofonico universitario internazionale. È uno degli emblemi della generazione Erasmus, i millennials che hanno fatto del contatto con le altre culture comunitarie la cifra della loro formazione accademica. Anche Cherif Chekkat è ai mercatini di Natale della capitale europea. Ha 29 anni ed è nato e cresciuto in Europa. Ha alle spalle diversi precedenti penali che raccontano di rabbia e di violenza. Recentemente si è religiosamente radicalizzato, abbracciando le frange più estremiste dell’islam. È uno degli emblemi della generazione Isis, nome con cui Olivier Roy ha definito i millennials occidentali che trovano nel fondamentalismo una risposta al nulla esistenziale in cui l’Europa fa crescere i suoi giovani e gli immigrati di seconda e terza generazione.
Antonio e Cherif si sono incontrati in quei mercatini. E a quel punto ciò che ha contato davvero non è stata l’Isis — che quasi non esiste più — e neppure il rapporto controverso tra le difficoltà della presidenza francese e la rivolta dei gilet gialli: ciò che ha contato davvero è stato il fallimento della nostra capacità di adulti e di cittadini di far incontrare e parlare queste due generazioni.
Cherif ha sparato ad Antonio, ha mirato alla testa, e ora il giovane italiano lotta disperatamente contro la morte. Quello che rimane da questa storia non è la casualità, e non è neppure il terrorismo: quello che resta è che i giovani, i nostri giovani europei, si stanno uccidendo fra loro. L’Europa è un contenitore vuoto non perché non abbia identità o storia, ma perché ha rinunciato a parlare alla giovinezza, ad offrire ai ragazzi una proposta, un ideale, una promessa con cui immedesimarsi, una cornice in cui andare a costruire il proprio futuro, contribuendo al futuro di tutti.
E questo è avvenuto per tre fattori decisivi.
La globalizzazione invece di far incontrare le differenze ha uniformato le diversità, spingendo le culture più irriducibili in ghetti nei quali lo Stato non ha accesso e alcun movimento educativo riesce a penetrare. È in atto una militarizzazione delle culture cui l’Unione risponde non con l’inclusione, ma con la negazione delle culture. L’Erasmus oggi è più esperienza di promiscuità che di pluralità, più esasperazione giovanilistica che progetto culturale.
Le migrazioni, secondo fattore, sono state concepite in un’ottica di mercato più che in un’ottica di opportunità: i migranti sono oggi diventati forza lavoro e consumatori, senza che la loro presenza si sia mai tradotta nella ricerca di una rappresentanza delle loro istanze e delle loro idee. Essi prosperano e hanno prosperato nel nulla, passando dalla povertà estrema ad un certo benessere senza che nessuno si premurasse di aiutarli a collegare quel benessere alla sua origine, alla sua storia.
Infine la tecnologia ha alienato le relazioni, umiliando i rapporti diretti ed esaltando le comprensioni solipsistiche del mondo. Sono scomparsi quasi del tutto i luoghi di incontro reali fra le persone, luoghi dove coltivare solidarietà e sussidiarietà, al contrario lasciando i singoli in balia di un desktop o di un display. La solitudine in cui abbiamo rinchiuso le domande e i desideri dei ragazzi ha aperto le porte ad un edonismo e ad un fondamentalismo impensabili, in cui il vuoto domina e con esso il non senso.
È stato in questo non-senso che Antonio e Cherif si sono incontrati. Avrebbero potuto essere buoni amici, sono diventati attori di una guerra che l’Europa sta combattendo contro se stessa. Incapace di essere casa, incapace di trasformare ogni incontro e ogni situazione in un bene, in una novità. Condannandosi a invecchiare nel sangue la sua antica promessa di libertà. Lasciando per la strada l’odio di Cherif e i sogni mai sopiti di Antonio. Entrambi vittime di una speranza che non c’è, di un bene che il cuore ha ormai smesso — almeno esplicitamente — di aspettare.