Era mio padre. E anche se ti chiami Vasco, e sei nella leggenda; anche se hai i capelli bianchi, passati i sessanta e con figli; anche se sei sulla via del tramonto, che ritardi di anno in anno, incapace a mollare, tuo padre è un grumo che salta fuori negli anniversari, e ti manca. Così il rocker più famoso d’Italia ha ricordato con un titolo e sottotitolo apparentemente velati d’ironia, “Era mio padre. Lezione di storia”, la scomparsa prematura del papà.
Un camionista, altro che artista. Fermato sulla strada del lavoro e della vita da un infarto, ancora troppo giovane per vedere questo figlio diventare famoso. Vedere “quel che ha combinato”, dato che un padre ti ama e ti sostiene anche quando non fai un tubo, o fai male. C’è il velo della nostalgia e forse del rimorso, che abbiamo tutti, nei confronti dei genitori: ribelli da giovani, e forse disattenti forse impietosi forse crudeli, nel tentativo di crescere per contrapposizione, c’è sempre un tempo che riporta a galla gli errori, l’indifferenza, la somma degli attimi perduti. Metti insieme le fila degli anni e scopri che quel che sei è la tua storia, la tua famiglia, l’aria che hai respirato. E un padre manca, manca la sua forza, la certezza che ci sia, quando vaghi di locale in locale, di palco in palco, lui che ha appena ascoltato una tua canzone alla radio, e se ne era commosso, orgoglioso. Chissà se li capiva, i tuoi testi, chissà se il senso lui l’aveva trovato, scaricando e caricando cassette di frutta e guidando il camion ai 90 all’ora indefessamente, ma libero, col suo camion.
Vasco ha ritratto in qualche dagherrotipo il papà e la mamma, nella sua Zocca semplice e buona, anche se la vita era dura. Lui che faceva il chierichetto, perfino, e metteva la camicia bianca e la cravatta, accanto al babbo, vestiti proprio uguali, con la bottiglia di vino sul tavolo, che è pur sempre una droga, ma meno cattiva, e se fai l’autista per campare sai dosarla abbastanza. E’ la foto che ha scelto per questo messaggio lanciato da Instagram, e fa pensare l’ora, 4.10 del mattino. Forse era tornato da un concerto, o più probabilmente la notte pensi, ti fermi e sei costretto a pensare. Che quel padre, morendo e lasciandoti solo, all’improvviso, ti ha trasmesso la dritta più importante: svegliati. Dài Vasco, smetti di fare l’adolescente ribelle, hai trent’anni, tira fuori la grinta.
Se di rabbia ne ha messa, Vasco Rossi, nei suoi testi, nel modo di cantarli, se la trasgressione è diventata l’icona con cui si è fatto conoscere, e ha dato voce a tante piccole trasgressioni, c’era e c’è in lui un’anima tenera. Quella di “Jenny”, di “Alba Chiara”, di “Canzone”, scritta proprio per suo padre. Parlano di un’amarezza, una malinconia, una ricerca inappagata di senso: forse non è vero che non c’è, che questa vita è vana. Che essere liberi è bellissimo, ma tocca sapere da che cosa.