Non sappiamo perché Francesca — la chiameremo così — abbia scelto di emulare il padre in un gesto folle in una mattina di dicembre. Non sappiamo perché abbia deciso di darsi fuoco nello stesso parcheggio di Vado Ligure dove cinque anni fa il papà fece la stessa cosa. Non sappiamo perché la sua esistenza di neodiciottenne abbia deciso di cedere al terribile ricordo del giorno in cui suo padre si tolse la vita a causa di problemi economici che aveva portato all’attenzione perfino di Beppe Grillo, all’indomani delle sorprendenti elezioni del 2013. Non conosciamo ragioni, motivi, cause e per questo, in fondo, non ci sarebbe notizia. Eppure quanto è accaduto, il fatto stesso che una figlia poco più che adolescente abbia posto in essere il medesimo tentativo suicidario del padre, ci spinge a guardare in faccia un paio di cose, tutt’altro che secondarie.



I figli guardano i genitori e imparano da loro non ciò che dicono, ma ciò che seguono, ciò che fissano, ciò che amano. Siamo figli nella misura in cui abbiamo imparato ad amare e guardare la realtà come i nostri genitori. Questo può essere terribile — che responsabilità che ciascuno ha nel modo con cui sceglie di rapportarsi con le cose! — e allo stesso tempo può essere consolante, perché in fondo quello che trasmettiamo è quello che siamo, il cammino che facciamo, non la nostra coerenza. In ogni modo una simile dinamica è come una sfida non a comportarci bene, bensì ad amare noi stessi, a prenderci cura delle cose, a vivere la realtà come segno.



Poi c’è il tema del dolore. La cosa che un figlio nota di più è il modo con cui tu soffri. Tra dolore e sofferenza c’è una fondamentale diversità: il dolore è ciò che ci capita, che non può essere evitato, e che introduce nella nostra esistenza come uno iato tra ciò che si desidera e ciò che si vive. La sofferenza, al contrario, è il modo con cui ciascuno reagisce al dolore, è la nostra risposta al dolore. Il punto è che non conta che cosa nella vita attraversiamo, ma come la viviamo, come la percepiamo: si può avere un tumore e maledire ogni giorno di malattia, oppure essere in fin di vita e benedire ogni istante che ci è ancora dato.



Infine c’è la questione della memoria, del tempo che diventa monito e profezia: non esiste un passato che non lasci traccia su di noi, non esiste un contatto, un gesto, che non segni profondamente chi siamo. Gesù di Nazareth diceva che saremmo costretti a rendere conto, a vedere le conseguenze, anche di una parola detta per scherzo. Il passato non si può dimenticare, il dolore non si può archiviare: con la vita si impara a convivere, con le ferite si impara a comprendere e a vedere le cose. Non guariamo mai dal nostro passato. E per questo siamo responsabili di come ci prendiamo cura di noi stessi e del nostro cammino.

Non sappiamo perché Francesca abbia tentato di uccidersi, ma sappiamo che il modo con cui suo padre aveva amato, il modo con cui aveva sofferto, quanto lui aveva fatto, era diventato lo sguardo che lei aveva su di sé. Perché se è vero che dall’amore si impara a vivere, è ancor più vero che nell’amore si impara a morire, si conosce il valore. E tutti ci riscopriamo connessi, imprigionati nel falso mito della libertà individuale, chiamati in causa nel renderci conto che il modo con cui guardiamo le stelle segnerà per sempre ogni uomo, ogni Francesca, che alzerà gli occhi al cielo.

Nella tragedia di Vado Ligure brilla un padre e una figlia, riluccica l’inesorabile destino che ci vuole tutti segnati dal volto dell’altro. Tutti abitati da quello che abbiamo visto, da quello che ci è stato donato.