CATANIA — Le crepe, ben visibili sui muri, sono il nostro promemoria: ricordano ciò che è andato perduto, ciò che forse sarà irreparabile, nonostante l’ultima notte – appena sfiorata da scosse di assestamento – abbia avuto le fattezze della quiete dopo la tempesta. Gli attimi appena successivi al sisma erano stati caratterizzati da un viavai disorientato, a tratti disperato, vorticoso nel turbine di voci che si accavallava e si confondeva. Adesso il viavai è silenzioso, determinato, e ha direzione diversa, opposta: non è più rivolto alla fuga verso la salvezza dell’esterno, ma verso l’interno di quei frantumi di cemento che ancora, strenuamente, si reggono in piedi.



Molti sanno già che la loro casa non sarà più agibile, altri lo scopriranno nelle prossime ore, altri ancora si aggrapperanno alla speranza che un nuovo terremoto non arrivi a dare il colpo di grazia a ciò che risulta ancora integro. Somiglia a una triste processione quella che soccorritori e residenti locali compiono insieme edificio dopo edificio, vicolo dopo vicolo, nella viva speranza di non apprendere che il loro futuro sarà tutto da riscrivere.



Ma anche in questi casi, anche quando non resta niente su cui poggiare il fondamento di una rinascita, una strana forza, mi pare, emerge dai cuori di chi adesso è abbattuto. Lo si vede dalle solite domande che vengono poste: “che farà adesso?”, “dove andrete?”, o, ancora, “perché, pur sapendo i rischi che correte quotidianamente, non vi siete trasferiti prima?”.

Ogni volta, mi accorgo, le sofferte risposte sono precedute da un attimo di silenzio: forse serve a rimettere ordine tra i pensieri, forse serve a raccogliere il coraggio rimasto, mi dico. “Ricostruiremo. Abbiamo troppi ricordi, siamo nati qui. Non ci muoveremo per niente al mondo”. Rispondono tutti così. Ho continuato a guardare quel fiume di persone indaffarate ad immaginare il prossimo orizzonte, ho continuato ad ascoltarli per cogliere la fessura che squarciasse il buio dei discorsi più feriti, ed ecco: al posto della frustrazione, per la prima volta, ho intravisto, nei loro occhi, una nuova luce.



E allora ho capito. Ho capito che, a dispetto della preoccupazione per nuovi episodi che potrebbero verificarsi, per l’apertura di nuovi crateri secondari, a dispetto dei cocci di vita e di storia dispersi lungo l’asfalto, c’è una cosa che rimane salda a prescindere dall’entità delle scosse. È il sentimento di casa, di familiarità, di appartenenza, di identità. È un sentimento fin troppo radicato, che nemmeno la paura può fiaccare.